lunedì 12 dicembre 2011

SANTA LUCIA 

a

Caltanissetta



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Festa di Luce


Storie e tradizione religiosa


di

Giuseppe Saggio

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Le foto sono di Giuseppe Castelli, le cartoline sono tratte dalla mia collezione.

PREMESSA


LA TRADIZIONE RELIGIOSA

Facciata dell'attuale chiesa, a sinistra è visibile il corpo contenente la cappella  della famiglia Ajala -Giordano con  relativa sepoltura  sottostante.
La devozione verso  Santa Lucia a Caltanissetta è antichissima e si attestava nella chiesa rurale del Signore della Campagna, per differenziarla  da quella detta Signore della città (u Signuri a Cità) (XVI secolo) già di S. Nicola di Bari (XIV secolo).
Interno della "sacrestia" (la chiesa originaria) sistemata oggi con l'altare di legno che era
precedentemente collocato nell'attuale chiesa,
sono visibili i tre affreschi  che la caratterizzano:  a sinistra s. Lucia, al centro il Cristo Pantocrator,
e a destra S. Anastasia di Sirmio
La chiesa originaria preesistente databile intorno al XI secolo con il suo piccolo campanile a vela,  realizzato oggi lateralmente, sul colmo dell'attuale copertura trasformata ad unica falda, è stata utilizzata, dopo l'ampliamento dell'attuale chiesa, in sacrestia, dove sono ancora visibili tre affreschi: Cristo Pantocrator, Santa Anastasia di Sirmio e Santa Lucia.
Affresco con Cristo Pantocrator (che ricorda, o forse al quale si è ispirato quello di S. Spirito che è ritenuto del XVII scolo e quindi successivo, ridipinto sopra i resti originali dal pittore catanese Cirinnà nel 1974).
Il termine Pantocrator (dal greco “Pan” cioè tutto e “Kratos” potere, indica colui che governa l’Universo) [dal gr. παντοκράτωρ -τορος, comp. di παντο- «panto-» e tema di κρατέω «dominare»], spetta solo ed indistintamente a Dio, in forza della incarnazione del Verbo, per merito e volontà sola di Dio stesso, passa di diritto a Gesù Cristo, Verbo incarnato per opera dello Spirito Santo. Indicare il Cristo Sovrano che tiene insieme il mondo e che da alla vita il suo vero significato fondamentale.
L’impianto schematico-compositivo della figura con le braccia aperte, il manto rosso che gli ruota attorno ad ellisse e  lo avvolge.
Egli è ritratto in atteggiamento maestoso e severo,  nell'atto di benedire con le tre dita della mano destra, secondo l'uso  ortodosso.
Lo sguardo è solenne ed è rivolto  verso l’infinito, gli occhi sono spalancati oltre i confini del tempo e dello spazio.
Nel gesto della benedizione, attraverso la posizione delle dita, si può notare un particolare interessante: la mano destra “benedicente”, che rappresentano l’anagramma di Cristo XC IC, inoltre indicano la raggiunta unione in Cristo della natura umana e di quella divina.
La mano ha una valenza simbolica molto forte, quando la mano di Dio tocca l’uomo questi riceve in sé la forza divina. In questa icona Egli  benedice  la nostra vita, la nostra quotidianità e ci ricorda che è sempre con noi ……. Io ho posto le mie parole sulla tua bocca, ti ho nascosto sotto l’ombra della mia mano, quando ho disteso i cieli e fondato la terra, e ho detto a Sion: “Tu sei mio popolo”……(Isaia 51,16).
Nel nimbo (ovvero l’aureola stichos o clavus), il cerchio inscritto attorno al capo di Cristo, indica la luce dell’aura che circonda il capo dell’uomo che riceve la luce divina e la rimanda intorno a se, vi è raffigurata una croce e le iniziali della definizione di Dio “Colui che è” ma, allo stesso tempo, esprime anche la divina regalità di Cristo. 
Egli è Profeta, nella mano sinistra regge il Mondo le dita  raffigurano il cosmo, con cui (parla la sua parola) proclama se stesso come: “Io sono la luce del mondo: chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12).
Lo sguardo è solenne ed è rivolto all’infinito, gli occhi sono spalancati oltre i confini del tempo e dello spazio. “La lucerna del tuo corpo è il tuo occhio; se il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce” (Mt 6,22). Una descrizione delle Icone bizantine come questa  dice: “i suoi occhi sono allegri e danno il benvenuto a coloro che non sono rimproverati dalla propria coscienza, ma per coloro che sono condannati dal loro proprio giudizio diventano adirati ed ostili.
La chiesa  attuale, costruita sul sagrato della vecchia chiesa, su una puntara,è databile intorno al ’700, si trova a sud-est della città nei pressi di Gibil Gabib,  è a navata unica con due altari laterali dedicati alle sante con-titolari (il quadro dell’altare a sinistra raffigurante S. Anastasia, di A. Falduzzi del 1747, si trova oggi al Museo Diocesano), oltre l’arco di trionfo si trova l’altare Maggiore dedicato al Crocifisso (che si festeggia per l’Esaltazione della Croce il 14 settembre).
In primo piano è visibile la costruzione originale della chiesa posta su un masso sporgente

Sulla parete di fondo dell'attuale chiesa sopra l'altare, si possono notare le tracce di un antico dipinto, rimpiazzato poi dal Crocifisso plastico, realizzato nel 1840 dal farmacista Michele Alesso, per il ripristino della processione del Giovedì Santo,  ed assegnato alla Congregazione dei macellai, ceduto a questa chiesa,  dopo la costruzione del gruppo attuale dallo scultore napoletano V. Biangardi nel 1891, oggi, dopo la rimozione dell'altare ligneo ricollocato in "sacrestia" il crocifisso e stato posto lateralmente.
Vecchia immagine nella quale si vede il Crocifisso plastico, realizzato nel 1840 dal farmacista Michele Alesso, per il ripristino della processione del Giovedì Santo, posto sull'altare ligneo che ora si trova in "sacrestia" che copriva in parte le Tracce dell’antico dipinto,   che rappresenta il Crocifisso  con ai lati in basso a sinistra  la Madonna Addolorata e a destra  san Giovanni, al di sotto si vedono  tracce di  altro affresco, che sono state rimosse o coperte durante gli ultimi "restauri".
A sinistra dell’altare maggiore si trova l’ampia cappella privata, decorata in stile liberty, delle famiglie Ayala e Giordano, con sottostante sepolcro, scavato nella roccia e accesso esterno, fatta realizzare dal cav. Vittorio Ayala nel 1890, come si legge in uno dei riquadri decorativi della volta e nella targa marmorea posta al centro delle parete frontale sopra il cornicione.
A centro del pavimento della cappella si trova la lapide amovibile con lo stemma, che serviva per calare i defunti nel sepolcro sottostante, a tale proposito si ricorda che questa è l'unica cappella funeraria esterna al cimitero.

Portale di accesso esterno alla sepoltura della famiglia Ajala, 
sopra il portale lo stemma della famiglia in marmo

Veduta interna della cappella della Famiglia Ajala

Particolare della volta della cappella dove nella parte bassa di un riquadro si legge:
"ERETTA DEL CAV. VITTORIO AYALA  NEL 1890"
Targa in marmo con la stessa scritta.


La chiesa è conosciuta anche con il nome di S. Anastasia, perchè dipendeva dall'antico Priorato del monastero della SS. Trinità di Mileto (1422) e poi anche di Santa Lucia, nome questo dato alla vasta contrada circostante.

Affrresco che rappresenta  Santa Anastasia di Sirmio, posta in piedi,  a figura intera e con il capo nimbato, lievemente rivolta verso destra, capelli rossi scriminati e fluenti,  vestita di una tunica bianca con il bordo della scollatura  e la cintura in giallo oro decorato con inserti di pietre preziose azzurre e perle,  con il mantello rosso mattone bordato in giallo; con la mano destra regge un contenitore (una burnia) di medicinali, considerato la la santa era chiamata in greco Farmacolìtria -Guaritrice dai veleni-, e in russo Uzoreshìtel'nitza -Colei che libera dai vincoli-, un simbolismo che unisce le immagini della guarigione dalle malattie e dello scioglimento dagli inganni demoniaci.
Tutta la figura nel complesso sembra ben delineata, nella pienezza del viso e nelle forme rotondeggianti, più comuni nella pittura del tempo, con tinte e tonalità cromatiche gradevoli. Entrambe le sante, che sono affrescate, si riferiscono quindi alla prima metà del secolo XV. per mano di un unico artista.
Opere di ignoto artista locale a conoscenza degli aspetti delle correnti artistiche del tempo.
Affreschi restaurati  da Rosolino La Mattina nel 1978
In una allegazione che presenta l’Abate di S. Anastasia nel 1771, parlando di S. Lucia della campagna si legge: “ sempre la detta chiesa si è nominata di S. Lucia e di S. Anastasia siccome oggi si vedono due antichissime immagini di S. Lucia e di S. Anastasia scolpite (?!) nel muro. Si nomina di S. Lucia per una celebre statua che ivi esisteva e poi fu trasferita nella chiesa di Maria SS. dell’Arco, ove presentemente esiste, siccome a tutti è costante.” (Francesco Pulci "Lavori sulla storia Ecclesiastica di Caltanissetta” 1977 pag. 345 nota 87)
Nel ’7-’800, la chiesa era stata affidata ad un frate laico cappuccino, che per non fare giornalmente il percorso a piedi verso la città, pensò di trasformare, per sua comodità  i locali della sacrestia in alloggio, e quindi per illuminare ed arieggiare il locale allargò la feritoia esistente in una finestra sotto il Cristo Pantocrator, costruì un focolare nell'angolo a sinistra, dove però si trovava l’affresco di Santa Lucia, e si fece il giaciglio, per stare al caldo,  in un soppalco realizzato sopra detto focolare e per far questo, infilzò le travi nell'affresco della santa. In questo modo la parte inferiore dell’affresco è andato perduto.
Così il can Pulci ricorda l'avvenimento (considerato che il libro, nella parte relativa alla descrizione delle chiese è stato realizzata alla fine dell’800, mentre quelle relative al vescovado si protraggono ai primi del '900 e la sua premessa è datata 25 marzo 1924, quando scrive nella nota " nel secolo passato" si riferisca al 1700):
È a lamentare che nel passato secolo affidata la chiesa alla custodia di un imperito frate laico, questi per proprio comodo ebbe ad elevarsi un muretto che toglie la visuale degli affreschi meritevoli dell’attenzione dell’archeologo”. (F. Pulci  Lavori sulla storia ecclesiastica di Caltanissetta 1977 pag. 366 nota 2)

Affresco che rappresenta Santa Lucia, posto sul lato sinistro dell’osservatore  sulla parete di fondo della "sacrestia", la Santa  si staglia a grandezza quasi naturale. È rappresentata in piedi vestita con una tunica verde chiaro (colore questo che è riproposto nel nuovo simulacro presente nella chiesa in città) con il bordo della scollatura  in bianco e decorato con ricami; il mantello rosso-mattone, con ampia bordura decorata è raccolto sul braccio destro, con la mano destra trattiene in alto l'altro lato del mantello mentre  tiene il consueto piattello dove si possono scorgere gli occhi cigliati (simbolo identificativo del suo martirio); la testa nimbata, è ruotata leggermente verso destra, i capelli biondi raccolti indietro  sono adorni di oggetti preziosi e una corona con diadema  grosse perle con al centro una pietra preziosa.
La figura della santa, in posizione molto plastica, risulta curata nel disegno dei particolari, dei panneggi con pennellate piene, eleganti e puntuali.
Manca la parte bassa rovinata dal focolare  che il il frate cappuccino realizzò nell''7-800.
La festa della santa veniva celebrata annualmente in questa chiesa e durava otto giorni (ottavario) con processione della statua della santa fino in città, con i fedeli che portavano in mano un rametto di mirto (murtidda) e un cero o una fiaccola acceso.
Per i festeggiamenti dedicati alla Santa, lungo il percorso della processione, la città si addobbava di drappi, esponendo le coperte più belle ai balconi e illuminando le strade con i ceri e fiaccole.
Cconsiderato che il tempo a dicembre non è sempre sereno e i fanghi  creavano non poche difficoltà lungo il percorso della processione e soprattutto nei pressi della chiesa, per volere popolare nel XVIII secolo si trasferì la statua della santa nella chiesa della Madonna dell’Arco che d’allora si chiamò anche di S. Lucia.

CHIESA della MADONNA DELL’ARCO o di SANTA LUCIA.
Accanto ad una delle antiche Porte della città, quella settentrionale, esisteva già nel XVI secolo una chiesa dedicata alla Vergine che, per la sua posizione, fu  identificata come Madonna dell’Arco così come risulta da un atto di soggiogazione tra il Governatore della Confratria della Madonna dell’Arco, Carlo Denaro e i coniugi Sebastiano  e Antonia Muratore  presso il Not. Francesco Mammana, datato 6 aprile 1581.
La chiesa fu però ufficialmente consacrata dal Vescovo di Agrigento, Mons. Vincenzo Bonincontro, solo il 13 aprile 1614, durante una Sua  Sacra Visita.
La chiesa, secondo gli storici locali  Luciano Aurelio Barrile  e  Camillo Genovese, rappresentava nel XVIII secolo  il limite occidentale del quartiere di S. Flavia o S. Venera.
Foto d'epoca della Chiesa di Santa Lucia prima dei bombardamenti  del 9 luglio 1943, tratta dal libro "Caltanissetta c'era una volta"
Questa chiesa, non si trovava nella posizione attuale, ma nel lato opposto della  strada, accanto alla porta della città. La  strada si chiamava perciò “stratuni di Santa Lucì
Planimetria catastale del 1878 dove si vede la  forma e la posizione della chiesa di S. Lucia  ricostruita tra il 1838 e il 1846 sul lato opposto della strada, dopo che nel 1830 l'originaria chiesa della Madonna dell'Arco della seconda metà del XVI secolo, era stata demolita con la vicina Porta Settentrionale della città  per la realizzazione della nuova strada Consolare carrabile per Palermo.
La chiesa  fu demolita assieme  alla porta, intorno al 1830, per realizzare la nuova strada consolare per Palermo, e ricostruita tra il 1838 e 1846 ad una distanza di circa otto metri dal sito precedente   divenendo così, nella metà del XIX sec., il nuovo limite settentrionale del quartiere S. Rocco.

Ricostruzione della facciata della chiesa ottocentesca di S. Lucia,
 fatta  dall'arch. G. Castelli utilizzando la foto precedente.
Bombardata il 9 luglio del 1943, durante la seconda guerra mondiale, è stata ricostruita nel 1948 su progetto dell’arch. Gaetano Averna a pianta centrale (ottagonale) ed  inaugurata dal V Vescovo della città Mons. Giovanni Iacono il 7 maggio del 1950.


Foto dei ruderi della chiesa di S. Lucia  causati dai  bombardamenti  del 9 luglio 1943,
tratta dal libro "
Caltanissetta c'era una volta"
Ancora oggi per la festa della santa, davanti la chiesa, non mancano mai “u Ciarameddaru” (suonatore di cornamusa o zampogna) e il venditore di "murtidda", che da la possibilità ai fedeli di rinnovare la tradizione e pregare la Santuzza,  con  il  ramoscello in mano, che si offrirà  alla Santa o addobberà le “nuvene” a casa.

CONFRATERNITA
In questa chiesa aveva sede la Confraternita omonima, formata da contadini.
La loro uniforme era formata da un mantello si seta cilestre (celeste), sotto lasciava pendere una lunga striscia o stola  di lana rossa  larga  cm. 25 sulla quale stava un ovale sul quale era dipinta la Madonna dell’Arco con ai piedi S. Lucia
In questa Chiesa, generalmente, i nuovi Vescovi vestivano gli abiti Pontificali per l’ingresso ufficiale in Città, attraverso una processione solenne con tutto il clero fino in Cattedrale e prendere così possesso della Diocesi.
Addobbo del "Sepolcro" che si realizzava nel periodo di Pasqua
nella chiesa di S. Lucia prima dei bombardamenti
URBANISTICA-
nella prima metà dell''800
La realizzazione della nuova strada Consolare per Palermo, attraverso sbancamenti e demolizioni, è da considerarsi  un vero e proprio “fuori scala” urbanistico.
Bastone del Collegio realizzata dal Comune su progetto dell'arch. Gaetano Lopiano
Vecchia cartolina con il bastione del Collegio
Con la realizzazione del Bastione del Collegio, si crea un nuovo asse ampio e diritto, che da origine ad una nuova “crux viarum” dell’urbanistica moderna che renderà possibile l’allestimento dei grandi spettacoli processionali come quello del Giovedì Santo, che originariamente partiva proprio dal cortile del Collegio Gesuitico.
L’abbellimento del bastione è stato successivamente realizzato su progetto  dell’arch. Comunale Gaetano Lo Piano, già impegnato nella costruzione del Giardino Pubblico “Villa Isabella” (villa Amedeo), dopo i luttuosi eventi del 1820. Fu incaricato anche del completamento della facciata della  Chiesa madre, eretta a  Cattedrale  nel 1844, ecc.
La città, come nuovo capovalle, si è dotata di nuovi uffici, strade , moderni edifici civili e religiosi, per garantire “servizi” al popolo.
In questo periodo si realizza anche  l’altro bastione di Sant’Antonino  a seguito del taglio della collina della Provvidenza, per la costruzione della nuova strada per Piazza (Armerina).
Facciata della Chiesa di S. Lucia vista da via Arimondi


SANTA LUCIA- FESTA DI LUCE
Illuminare la notte
l'ulivo, l'ape, l'olio e la cera
fuoco e luce.

In tanti paesi la notte di Santa Lucia, si mettevano i lumi alle finestre per illuminare la strada verso il Paradiso alle anime purganti.
Secondo la tradizione, Lucia con una lampada fissata sul capo, percorse gli angusti cunicoli delle catacombe, per distribuire ai bisognosi, il denaro ricavato dalla vendita della sua ricca dote.
Nei paesi scandinavi le ragazze  vestite con una semplice tunica, si cingono la testa con corone di candele e sfilano lungo le strade intonando canti sulle note della canzone napoletana “S. Lucia”:

Sul mare luccica
L’astro d’argento.
Placida è l’onda;
prospero è il vento.
Venite all’agile
Barchetta mia!
Santa Lucia, Santa Lucia...
La vita è racchiusa e straordinariamente  condensata nel trinomio Lucia-luce-fuoco, ricordando che in dialetto il fuoco lo chiamiamo “luci”, mentre la luce è “lustru”. E quindi in dialetto: Lucì, lustru e luci
Chi non ha mai esclamato l’espressione “Santa Lucì!” per chi cerca una cosa senza vedere che gli sta davanti appunto sotto gli occhi?
Lucia, femminile del nome latino Lucius, deriva da lux, cioè luce, che veniva imposto a chi nasceva all’alba. Il nome di Santa Lucia si invoca contro le malattie degli occhi.
L’iconografia tradizionale ci tramanda la figura di Santa Lucia, vergine e martire siracusana morta decapitata nel 304 durante la persecuzione di Diocleziano, come una giovane bellissima vestita di verde che porta con la destra un vassoio (alzata) sul quale sono posati gli occhi, strappatigli  dal corteggiatore rifiutato (altra versione vuole invece che se li sia strappati da sola inviandoli al corteggiatore innamorato dei suoi occhi), la palma del martirio nella deistra e la spada infissa nel collo.
La statua della santa che oggi vediamo è recente, considerato che quella antica è andata distrutta dai bombardamenti che hanno interessato la chiesa.
  Il nuovo simulacro si presenta con la Santa in piedi,, nella mano sinistra tiene  la classica alzata, nel piattello della quale sono collocati  i  simboli abituali del Suo martirio, gli occhi (che la tradizione vuole Le siano stati strappati). mentre con la mano destra tiene un libro e la palma del martirio.
Sulla testa, dalla bionda capigliatura raccolta all’indietro, porta una corona ornata da grosse pietre preziose.
Indossa una veste di colore verde chiaro con decori in oro e azzurro, stretta alla vita da una cintura in oro come l’orlo della veste e della scollatura, dalla quale si vede la sottostante  tunica bianca arricciata al collo.
Il mantello rosso, con decori damascati in oro, le avvolge la spalla sinistra ed è trattenuto sul libro  che la Santa  tiene con la mano destra che trattiene l'altro lato del mantello.

Nel viso, dai tratti estremamente morbidi e delicati ,colpisce lo sguardo languido e, allo stesso tempo, dolcissimo 
che sembra rifulgere di un bagliore riflesso di Luce divina, che La rende leggiadramente pura ed eterea.
Vi invito, comunque ad osservare la somiglianza  di questa statua con l'affresco sopra descristto.
Gli Atti del suo martirio, il cosiddetto Codice Papadopulo, narrano di una giovane, orfana di padre, appartenente ad una ricca famiglia di Siracusa, che era stata promessa in sposa ad un pagano
Lucia decise di rinunciare ai suoi averi dopo che le apparve in sogno Sant'Agata, patrona di Catania.
Abbandonando così l'idea del matrimonio, Santa Lucia indusse il fidanzato a vendicarsi di lei denunciandola come cristiana.
Il processo che Lucia sostenne dinanzi all'Arconte Pascasio attesta la fede ed anche la fierezza di questa giovane donna nel proclamarsi cristiana. Minacciata di essere esposta tra le prostitute, Lucia rispose. "Il corpo si contamina solo se l'anima acconsente". Il proconsole allora ordina che la donna sia costretta con la forza, ma lei diventa così pesante, che decine di uomini non riescono a spostarla. Il dialogo serrato tra lei ed il magistrato vede addirittura quasi ribaltarsi le posizioni, tanto da vedere Lucia quasi mettere in difficoltà l'Arconte che, per piegarla all'abiura, la sottopone a tormenti.
Lucia esce illesa da ogni tormento fino a quando, inginocchiatasi, viene decapitata.
La sua iconografia vede spesso gli occhi accompagnati dal pugnale conficcato in gola. Il motivo di questa raffigurazione è da spiegarsi con il racconto dei cosiddetti Atti latini che descrivono la morte di Lucia per jugulatio piuttosto che per decapitazione.
Il corpo della santa, prelevato dai Bizantini, dal suo “loculo” a Siracusa, è stato, prima portato a Costantinopoli da Maniace, e  successivamente trafugato dai Veneziani dopo la decisione del Doge Enrico Dandolo, nel 1204,  di trasferire a Venezia il corpo della Santa, quando Costantinopoli cadde sotto i Crociati, oggi si trova ora a Venezia nella chiesa dei Santi Geremia e Lucia.
Secondo una leggenda priva di fondamento oggettivo, la discendenza della santa siracusana proverrebbe direttamente dalla famiglia di  Archimede, legando così le due figure più importanti della città ad un unico ramo genealogico.
Privo di ogni fondamento, ed assente nelle molteplici narrazioni e tradizioni, almeno fino al secolo XV, è l'episodio di Lucia che si strappa gli occhi. L'emblema degli occhi sulla tazza, o sul piatto, è da ricollegarsi, semplicemente, con la devozione popolare che l'ha sempre invocata protettrice della vista a causa del suo nome Lucia.
La vista, considerata come bene essenziale e primario della quale non vogliamo privarci, tanto da essere nominata come garanzia nei giuramenti  “urbi  di l’ucchi”.  
Prima della riforma del calendario giuliano (1582), che sostituì quello gregoriano, (la differenza è di 10 giorni)  il 13 dicembre, giorno di Santa Lucia,  coincideva con il solstizio d’inverno, che era considerato  il giorno più corto dell’anno, dal quale il detto “Santa Lucia ’u jornu cchiu curtu ca ci sia. E questa tradizione, scientificamente non esatta, è rimasta invariata e tramandata sino ai nostri giorni.

Altri detti hanno lo stesso significato:
Santa Lucia a’notti cchiu longa ca ci sia. 
Santa Lucì i jorna incuminciano a crisciri arrì.
Pì’ Santa Lucì si mancia ‘a cuccì
È curioso notare che questa tradizione si può applicare nell'ambito del calendario gregoriano, avendo però l'accortezza di interpretare il "giorno più corto" come il giorno in cui il sole tramonta prima.
La celebrazione della festa in un giorno vicino al solstizio d'inverno, è probabilmente dovuta alla volontà di sostituire antiche feste popolari che celebravano la luce e si festeggiano nello stesso periodo. Altre tradizioni religiose festeggiano la luce in periodi vicini al solstizio d'inverno come ad esempio la festa di Hanukkah ebraica, che dura otto giorni, come le celebrazioni per la Santa.
Questo periodo, dal 13  al 24, collegato agli antichissimi riti solstiziali, viene osservato come propedeutico dei dodici mesi del nuovo anno.
Il mese di dicembre, come gli altri, era scandito dagli indovinelli“ ‘a ‘nnuminaglia” o miniminaglia” così uno recita:

"Diciemmiru : o rui Cuonu, o quattru Barbara, o sia Nicola, l'uottu Marì, o tririci S. Lucì e o vinticincu 'u veru Missia"

(Spiegazione: Nel mese di dicembre si festeggiano il 2 S. Cono, il 4 S. Barbara, il 6 S. Nicola, l'8 Maria Immacolata, il 13 S. Lucia ed il 25 il Natale di Gesù (vero Messia).
Cappelletta decorata per la "novena"

    In questo modo il Capofamiglia, indicava i numeri, che non si pronunciavano e si associavano ai Santi e alla smorfia de lotto, nel gioco della tombola quando, nelle sere d’Avvento, si riunivano i parenti attorno ad un tavolo, che  mettevano il fagiolo, il lenticchio, la fava secca, i bottoni ecc. sul numero corrispondente della cartella se c’era.
Queste riunioni familiari, allargate ad amici e vicini, si svolgevano accanto al braciere e  ai “tangini” (scaldini) di carbonella o di “ginisi di scorci di minnula” carbonizzati   che prevalentemente le donne mettevano tra le gambe, alla luce dei lumi a petrolio o delle lumere,  gli odori si mischiavano da quello dolce dell’olio a quello aspro del carbone e del petrolio.
Sul comò di tutte le case, in bella vista era “cunzata” a nuvena: lo specchio veniva coperto dalla carta stellata e nel piano e sopra lo specchio venivano ordinati in fila e posti a perimetro  i frutti di stagione più belli: aranci, puma, mannarini, nispuli di 'mmirnu e murtidda e addauru  (arance, mele, mandarini, nespole d’inverno e l’immancabile mortella o mirto e rami di alloro), al centro il Bambinello di cera e il lumino ad olio (un bicchiere con dell’acqua e olio) con il miccu addumatu (lucignolo) galleggiante.
L’uso dell’utilizzo dei rami e dei frutti, è semplice figurazione, legata alla terra e  retaggio delle feste latine
La sera, davanti a questa novena così addobbata, si recitava il rosario e si intonavano canti natalizi come:
...
cch’è bedda ‘ssa murtidda,
è bedda carricata
cci cadi la jlata,
cchiù bedda si fa.                                     Traduzione:              
Come sono belli questi rami di mirto,
così carichi di bacche
il gelo che li ricopre,
li  rende più belli.
Altra tipologia di addobbo della "Novena" realizzata davanti una "fguredda" (cappelletta)
con rami di "murtidda" (mirto) frutti  intrecciati e "addauru" (alloro), davanti alle quali
i "ciaramiddari" (zampognari) suonano le nenie natalzie e alle "ladate" (.
Ai luoghi di culto deputati alle scene presepiali e delle novene, allestite in ogni casa, si irradiavano forme strumentali e vocali di antica memoria, ai quali si affidava il compito rituale di sacralizzare gli spazzi vissuti e abitati nel segno del culto per il Bambino Gesù, espressione tangibile della vita che rinasce.
    La "laudata" o "lamintanza",diversa da quella che s'intona durante la Quaresima, la tradizione sconosce l'epoca nella quale sia comparsa per la prima volta, questo canto così struggente e originale, é esclusivo di Caltanissetta, ma con variazioni , lo ritroviamo in altri comuni.
Alle strofe fu data dal popolo un'intonazione monotona e lamentevole, da questo forse il nome "lamintanza", che tramandata da padre in figlio si é conservata quasi fino a noi.
A Caltanissetta a dominare musicalmente la scena della Natività era la ciaramedda, ovvero la zampogna che accompagnava i laudanti. I gruppi, erano contadini o zolfatai  messi in crocchio nelle strade o riuniti nelle bettole davanti ad un bicchiere di vino e ad una tazza con zuppa di ceci o di fagioli per poi continuare nuovamente per le strade.
Bastavano poche persone per eseguire questa cantilena.
Uno, quello che presume di essere in grado, perché la conosce tutta o più strofe, fa da "prima vuci", intona il canto; l'entusiasmo che lo pervade con repentine modulazioni della voce e con movimenti  mimici coinvolgeva gli astanti.
L’arcaico suono della “ciaramedda” (zampogna) ci rimanda all'antica offerta musicale agro-pastorale, infatti lo strumento altro non è che una sacca detta “otre”  realizzata con pelle e ventre  di capra, pecora o montone; nel foro ricavato dal collo dell’animale si inserisce un blocco di legno dentro il quale si attaccano le canne, cioè i tubi sonori.
L’attuale chiesa è la terza, infatti la prima dedicata alla Madonna dell’Arco, chiamata così per la presenza della Porta Settentrionale della città. demolita per la livellette per la costruzione della strada consolare carrabile per Palermo intorno al 1830; la seconda, costruita lo stesso anno sul lato opposto, che si intravede in alcune antiche foto e distrutta durante i bombardamenti del 9 luglio del 1943; la terza, l’attuale, progettata dall’arch. G. Averna a pianta centrale (ottagonale) ed inaugurata dal 5° V Vescovo della diocesi mons. Giovanni Iacono il 7 maggio del 1950.
La “ciaramedda” porta impressa, inoltre la memoria dell’ideologia arcaica della festa, quella che si nutre dell’ostentazione di sovrabbondanza mentale, fisica, alimentare, dunque dell’orgia, necessaria all’economia del sacro e alla rigenerazione ciclica della vita.


"La festa di S. Lucia
Il mercato. Gli occhi di cera. La cuccia.
Fino a non molto tempo fa, per S. Lucia, si faceva uno speciale mercato nel quale oltre che mortella, come oggi, si vendevano mele, arance, fichidindia, nespole e altro da servire per la grotta di Natale.
Un’usanza che ancora continua era quella della “cuccia” grano ammollato cioè, che viene cotto con ceci.
Un’usanza che è completamente scomparsa era quella dell’offerta a S. Lucia di occhi fatti di cera in ringraziamento di grazie ricevute. Ora tale uso è sostituito con quello generico di offrire alla Santa delle candele di cera".   Da la Favola bella di Enzo Falzone del 1963. pag. 83.

LA CUCCIA
Altra tradizione è quella della “cuccìa” il grano che viene bollito nell’acqua o nel latte che, con rima baciata, si mangia in suo onore.
La tradizione vuole che questa pietanza sia nata a Siracusa  nel XVII secolo, durante la dominazione spagnola, dopo una grave carestia che aveva interessato l’intera Sicilia. Il giorno di S. Lucia giunse nel porto della città, una nave carica di frumento, questo fatto è stato interpretato come miracolo per l’intercessione della Santa, protettrice della città, per questo motivo si è tramandato l’uso di mangiare la “cuccia” il giorno a lei dedicato.
Priva di fondamento la leggenda che vuole che in quell'occasione i siracusani cucinarono di fretta i cereali per nutrirsene facendo così nascere la tradizione della cuccìa
Il nome “cuccìa” sembra derivi dal sostantivo “cucciu” chicco, o dal verbo “cucciare” sgranare, piluccare, cioè mangiare un chicco alla volta.
    Le ricette variano da zona a zona, dal dolce al salato, quella nissena è prevalentemente salata abbinata  con un altro legume tipico del territorio come i ceci.
La preparazione  della “cuccìa”, rappresenta quasi un rito nelle famiglie siciliane. Bisogna  ricordarsi di ammollare il frumento  per almeno tre giorni, cambiando continuamente l’acqua, prima di cucinarlo. Stessa cosa si fa con i ceci però solo per una notte. Si  pongono poi sul fuoco in una pentola piuttosto grande e si fanno bollire molto lentamente con le foglie d’alloro e un pizzico di sale, fino a quando il frumento sarà tutto aperto e l’acqua sarà diventata color latte.
Si passa poi al condimento con olio extra-vergine d’oliva sale e pepe.
Alcuni la preparano con il solo grano e molto asciutta, quasi a sgranarla, le rimanenze venivano gettate sui tetti o sposti sui davanzali per dar da mangiare agli uccelletti.
Le altre ricette sono con latte e zucchero, con ricotta, cioccolato e cannella, con mostarda e miele.
E la luce fu.

Molto presto vi parlerò dell'illuminazione a Caltanissetta che la rendeva unica e talmente sfolgorante che ho pensato di chiamare Caltanissetta, parafrasando Leonardo Sciascia,  che l'ha definita "piccola Atene"......
......."piccola ville Lumiere" attraverso le storie sull'illuminazione pubblica, privata e religiosa....dalla torcia  all'elettricità passando per il gas.

continua...

                         


3 commenti:

Claudio Giordano ha detto...

La storia e la cultura devono essere tramandate, è d’obbligo rendere partecipi anche le generazioni future su quelle che sono le tradizioni del proprio paese e della propria gente, molte cose non vengono nemmeno scritte sui libri perché possono ritenersi superflue, invece spesso sono proprio quelle che incuriosiscono il lettore e lo spingono a saperne di più. L’architetto Saggio ci permette di assaporare con queste pillole di saggezza molto di ciò che appartiene alla nostra storia. GRAZIE

Claudio Giordano ha detto...

Caro architetto, Tu sei quella torcia elettrica che illumini un condotto attraverso un passaggio di gas, che, carico di particelle esplosive, genera quella luce ed energia creativa tale da elettrizzare un raggio di sole in una assolata giornata estiva. Claudio Giordano

Unknown ha detto...

Grazie,interessante ,ricca informazione,dai contenuti di una profonda ricerca ove spesso aiuta alla conoscenza di luoghi spesso perduti bel tempo e fatti rivivere e apprezza.