lunedì 12 dicembre 2011

SANTA LUCIA 

a

Caltanissetta



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Festa di Luce


Storie e tradizione religiosa


di

Giuseppe Saggio

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Le foto sono di Giuseppe Castelli, le cartoline sono tratte dalla mia collezione.

PREMESSA


LA TRADIZIONE RELIGIOSA

Facciata dell'attuale chiesa, a sinistra è visibile il corpo contenente la cappella  della famiglia Ajala -Giordano con  relativa sepoltura  sottostante.
La devozione verso  Santa Lucia a Caltanissetta è antichissima e si attestava nella chiesa rurale del Signore della Campagna, per differenziarla  da quella detta Signore della città (u Signuri a Cità) (XVI secolo) già di S. Nicola di Bari (XIV secolo).
Interno della "sacrestia" (la chiesa originaria) sistemata oggi con l'altare di legno che era
precedentemente collocato nell'attuale chiesa,
sono visibili i tre affreschi  che la caratterizzano:  a sinistra s. Lucia, al centro il Cristo Pantocrator,
e a destra S. Anastasia di Sirmio
La chiesa originaria preesistente databile intorno al XI secolo con il suo piccolo campanile a vela,  realizzato oggi lateralmente, sul colmo dell'attuale copertura trasformata ad unica falda, è stata utilizzata, dopo l'ampliamento dell'attuale chiesa, in sacrestia, dove sono ancora visibili tre affreschi: Cristo Pantocrator, Santa Anastasia di Sirmio e Santa Lucia.
Affresco con Cristo Pantocrator (che ricorda, o forse al quale si è ispirato quello di S. Spirito che è ritenuto del XVII scolo e quindi successivo, ridipinto sopra i resti originali dal pittore catanese Cirinnà nel 1974).
Il termine Pantocrator (dal greco “Pan” cioè tutto e “Kratos” potere, indica colui che governa l’Universo) [dal gr. παντοκράτωρ -τορος, comp. di παντο- «panto-» e tema di κρατέω «dominare»], spetta solo ed indistintamente a Dio, in forza della incarnazione del Verbo, per merito e volontà sola di Dio stesso, passa di diritto a Gesù Cristo, Verbo incarnato per opera dello Spirito Santo. Indicare il Cristo Sovrano che tiene insieme il mondo e che da alla vita il suo vero significato fondamentale.
L’impianto schematico-compositivo della figura con le braccia aperte, il manto rosso che gli ruota attorno ad ellisse e  lo avvolge.
Egli è ritratto in atteggiamento maestoso e severo,  nell'atto di benedire con le tre dita della mano destra, secondo l'uso  ortodosso.
Lo sguardo è solenne ed è rivolto  verso l’infinito, gli occhi sono spalancati oltre i confini del tempo e dello spazio.
Nel gesto della benedizione, attraverso la posizione delle dita, si può notare un particolare interessante: la mano destra “benedicente”, che rappresentano l’anagramma di Cristo XC IC, inoltre indicano la raggiunta unione in Cristo della natura umana e di quella divina.
La mano ha una valenza simbolica molto forte, quando la mano di Dio tocca l’uomo questi riceve in sé la forza divina. In questa icona Egli  benedice  la nostra vita, la nostra quotidianità e ci ricorda che è sempre con noi ……. Io ho posto le mie parole sulla tua bocca, ti ho nascosto sotto l’ombra della mia mano, quando ho disteso i cieli e fondato la terra, e ho detto a Sion: “Tu sei mio popolo”……(Isaia 51,16).
Nel nimbo (ovvero l’aureola stichos o clavus), il cerchio inscritto attorno al capo di Cristo, indica la luce dell’aura che circonda il capo dell’uomo che riceve la luce divina e la rimanda intorno a se, vi è raffigurata una croce e le iniziali della definizione di Dio “Colui che è” ma, allo stesso tempo, esprime anche la divina regalità di Cristo. 
Egli è Profeta, nella mano sinistra regge il Mondo le dita  raffigurano il cosmo, con cui (parla la sua parola) proclama se stesso come: “Io sono la luce del mondo: chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12).
Lo sguardo è solenne ed è rivolto all’infinito, gli occhi sono spalancati oltre i confini del tempo e dello spazio. “La lucerna del tuo corpo è il tuo occhio; se il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce” (Mt 6,22). Una descrizione delle Icone bizantine come questa  dice: “i suoi occhi sono allegri e danno il benvenuto a coloro che non sono rimproverati dalla propria coscienza, ma per coloro che sono condannati dal loro proprio giudizio diventano adirati ed ostili.
La chiesa  attuale, costruita sul sagrato della vecchia chiesa, su una puntara,è databile intorno al ’700, si trova a sud-est della città nei pressi di Gibil Gabib,  è a navata unica con due altari laterali dedicati alle sante con-titolari (il quadro dell’altare a sinistra raffigurante S. Anastasia, di A. Falduzzi del 1747, si trova oggi al Museo Diocesano), oltre l’arco di trionfo si trova l’altare Maggiore dedicato al Crocifisso (che si festeggia per l’Esaltazione della Croce il 14 settembre).
In primo piano è visibile la costruzione originale della chiesa posta su un masso sporgente

Sulla parete di fondo dell'attuale chiesa sopra l'altare, si possono notare le tracce di un antico dipinto, rimpiazzato poi dal Crocifisso plastico, realizzato nel 1840 dal farmacista Michele Alesso, per il ripristino della processione del Giovedì Santo,  ed assegnato alla Congregazione dei macellai, ceduto a questa chiesa,  dopo la costruzione del gruppo attuale dallo scultore napoletano V. Biangardi nel 1891, oggi, dopo la rimozione dell'altare ligneo ricollocato in "sacrestia" il crocifisso e stato posto lateralmente.
Vecchia immagine nella quale si vede il Crocifisso plastico, realizzato nel 1840 dal farmacista Michele Alesso, per il ripristino della processione del Giovedì Santo, posto sull'altare ligneo che ora si trova in "sacrestia" che copriva in parte le Tracce dell’antico dipinto,   che rappresenta il Crocifisso  con ai lati in basso a sinistra  la Madonna Addolorata e a destra  san Giovanni, al di sotto si vedono  tracce di  altro affresco, che sono state rimosse o coperte durante gli ultimi "restauri".
A sinistra dell’altare maggiore si trova l’ampia cappella privata, decorata in stile liberty, delle famiglie Ayala e Giordano, con sottostante sepolcro, scavato nella roccia e accesso esterno, fatta realizzare dal cav. Vittorio Ayala nel 1890, come si legge in uno dei riquadri decorativi della volta e nella targa marmorea posta al centro delle parete frontale sopra il cornicione.
A centro del pavimento della cappella si trova la lapide amovibile con lo stemma, che serviva per calare i defunti nel sepolcro sottostante, a tale proposito si ricorda che questa è l'unica cappella funeraria esterna al cimitero.

Portale di accesso esterno alla sepoltura della famiglia Ajala, 
sopra il portale lo stemma della famiglia in marmo

Veduta interna della cappella della Famiglia Ajala

Particolare della volta della cappella dove nella parte bassa di un riquadro si legge:
"ERETTA DEL CAV. VITTORIO AYALA  NEL 1890"
Targa in marmo con la stessa scritta.


La chiesa è conosciuta anche con il nome di S. Anastasia, perchè dipendeva dall'antico Priorato del monastero della SS. Trinità di Mileto (1422) e poi anche di Santa Lucia, nome questo dato alla vasta contrada circostante.

Affrresco che rappresenta  Santa Anastasia di Sirmio, posta in piedi,  a figura intera e con il capo nimbato, lievemente rivolta verso destra, capelli rossi scriminati e fluenti,  vestita di una tunica bianca con il bordo della scollatura  e la cintura in giallo oro decorato con inserti di pietre preziose azzurre e perle,  con il mantello rosso mattone bordato in giallo; con la mano destra regge un contenitore (una burnia) di medicinali, considerato la la santa era chiamata in greco Farmacolìtria -Guaritrice dai veleni-, e in russo Uzoreshìtel'nitza -Colei che libera dai vincoli-, un simbolismo che unisce le immagini della guarigione dalle malattie e dello scioglimento dagli inganni demoniaci.
Tutta la figura nel complesso sembra ben delineata, nella pienezza del viso e nelle forme rotondeggianti, più comuni nella pittura del tempo, con tinte e tonalità cromatiche gradevoli. Entrambe le sante, che sono affrescate, si riferiscono quindi alla prima metà del secolo XV. per mano di un unico artista.
Opere di ignoto artista locale a conoscenza degli aspetti delle correnti artistiche del tempo.
Affreschi restaurati  da Rosolino La Mattina nel 1978
In una allegazione che presenta l’Abate di S. Anastasia nel 1771, parlando di S. Lucia della campagna si legge: “ sempre la detta chiesa si è nominata di S. Lucia e di S. Anastasia siccome oggi si vedono due antichissime immagini di S. Lucia e di S. Anastasia scolpite (?!) nel muro. Si nomina di S. Lucia per una celebre statua che ivi esisteva e poi fu trasferita nella chiesa di Maria SS. dell’Arco, ove presentemente esiste, siccome a tutti è costante.” (Francesco Pulci "Lavori sulla storia Ecclesiastica di Caltanissetta” 1977 pag. 345 nota 87)
Nel ’7-’800, la chiesa era stata affidata ad un frate laico cappuccino, che per non fare giornalmente il percorso a piedi verso la città, pensò di trasformare, per sua comodità  i locali della sacrestia in alloggio, e quindi per illuminare ed arieggiare il locale allargò la feritoia esistente in una finestra sotto il Cristo Pantocrator, costruì un focolare nell'angolo a sinistra, dove però si trovava l’affresco di Santa Lucia, e si fece il giaciglio, per stare al caldo,  in un soppalco realizzato sopra detto focolare e per far questo, infilzò le travi nell'affresco della santa. In questo modo la parte inferiore dell’affresco è andato perduto.
Così il can Pulci ricorda l'avvenimento (considerato che il libro, nella parte relativa alla descrizione delle chiese è stato realizzata alla fine dell’800, mentre quelle relative al vescovado si protraggono ai primi del '900 e la sua premessa è datata 25 marzo 1924, quando scrive nella nota " nel secolo passato" si riferisca al 1700):
È a lamentare che nel passato secolo affidata la chiesa alla custodia di un imperito frate laico, questi per proprio comodo ebbe ad elevarsi un muretto che toglie la visuale degli affreschi meritevoli dell’attenzione dell’archeologo”. (F. Pulci  Lavori sulla storia ecclesiastica di Caltanissetta 1977 pag. 366 nota 2)

Affresco che rappresenta Santa Lucia, posto sul lato sinistro dell’osservatore  sulla parete di fondo della "sacrestia", la Santa  si staglia a grandezza quasi naturale. È rappresentata in piedi vestita con una tunica verde chiaro (colore questo che è riproposto nel nuovo simulacro presente nella chiesa in città) con il bordo della scollatura  in bianco e decorato con ricami; il mantello rosso-mattone, con ampia bordura decorata è raccolto sul braccio destro, con la mano destra trattiene in alto l'altro lato del mantello mentre  tiene il consueto piattello dove si possono scorgere gli occhi cigliati (simbolo identificativo del suo martirio); la testa nimbata, è ruotata leggermente verso destra, i capelli biondi raccolti indietro  sono adorni di oggetti preziosi e una corona con diadema  grosse perle con al centro una pietra preziosa.
La figura della santa, in posizione molto plastica, risulta curata nel disegno dei particolari, dei panneggi con pennellate piene, eleganti e puntuali.
Manca la parte bassa rovinata dal focolare  che il il frate cappuccino realizzò nell''7-800.
La festa della santa veniva celebrata annualmente in questa chiesa e durava otto giorni (ottavario) con processione della statua della santa fino in città, con i fedeli che portavano in mano un rametto di mirto (murtidda) e un cero o una fiaccola acceso.
Per i festeggiamenti dedicati alla Santa, lungo il percorso della processione, la città si addobbava di drappi, esponendo le coperte più belle ai balconi e illuminando le strade con i ceri e fiaccole.
Cconsiderato che il tempo a dicembre non è sempre sereno e i fanghi  creavano non poche difficoltà lungo il percorso della processione e soprattutto nei pressi della chiesa, per volere popolare nel XVIII secolo si trasferì la statua della santa nella chiesa della Madonna dell’Arco che d’allora si chiamò anche di S. Lucia.

CHIESA della MADONNA DELL’ARCO o di SANTA LUCIA.
Accanto ad una delle antiche Porte della città, quella settentrionale, esisteva già nel XVI secolo una chiesa dedicata alla Vergine che, per la sua posizione, fu  identificata come Madonna dell’Arco così come risulta da un atto di soggiogazione tra il Governatore della Confratria della Madonna dell’Arco, Carlo Denaro e i coniugi Sebastiano  e Antonia Muratore  presso il Not. Francesco Mammana, datato 6 aprile 1581.
La chiesa fu però ufficialmente consacrata dal Vescovo di Agrigento, Mons. Vincenzo Bonincontro, solo il 13 aprile 1614, durante una Sua  Sacra Visita.
La chiesa, secondo gli storici locali  Luciano Aurelio Barrile  e  Camillo Genovese, rappresentava nel XVIII secolo  il limite occidentale del quartiere di S. Flavia o S. Venera.
Foto d'epoca della Chiesa di Santa Lucia prima dei bombardamenti  del 9 luglio 1943, tratta dal libro "Caltanissetta c'era una volta"
Questa chiesa, non si trovava nella posizione attuale, ma nel lato opposto della  strada, accanto alla porta della città. La  strada si chiamava perciò “stratuni di Santa Lucì
Planimetria catastale del 1878 dove si vede la  forma e la posizione della chiesa di S. Lucia  ricostruita tra il 1838 e il 1846 sul lato opposto della strada, dopo che nel 1830 l'originaria chiesa della Madonna dell'Arco della seconda metà del XVI secolo, era stata demolita con la vicina Porta Settentrionale della città  per la realizzazione della nuova strada Consolare carrabile per Palermo.
La chiesa  fu demolita assieme  alla porta, intorno al 1830, per realizzare la nuova strada consolare per Palermo, e ricostruita tra il 1838 e 1846 ad una distanza di circa otto metri dal sito precedente   divenendo così, nella metà del XIX sec., il nuovo limite settentrionale del quartiere S. Rocco.

Ricostruzione della facciata della chiesa ottocentesca di S. Lucia,
 fatta  dall'arch. G. Castelli utilizzando la foto precedente.
Bombardata il 9 luglio del 1943, durante la seconda guerra mondiale, è stata ricostruita nel 1948 su progetto dell’arch. Gaetano Averna a pianta centrale (ottagonale) ed  inaugurata dal V Vescovo della città Mons. Giovanni Iacono il 7 maggio del 1950.


Foto dei ruderi della chiesa di S. Lucia  causati dai  bombardamenti  del 9 luglio 1943,
tratta dal libro "
Caltanissetta c'era una volta"
Ancora oggi per la festa della santa, davanti la chiesa, non mancano mai “u Ciarameddaru” (suonatore di cornamusa o zampogna) e il venditore di "murtidda", che da la possibilità ai fedeli di rinnovare la tradizione e pregare la Santuzza,  con  il  ramoscello in mano, che si offrirà  alla Santa o addobberà le “nuvene” a casa.

CONFRATERNITA
In questa chiesa aveva sede la Confraternita omonima, formata da contadini.
La loro uniforme era formata da un mantello si seta cilestre (celeste), sotto lasciava pendere una lunga striscia o stola  di lana rossa  larga  cm. 25 sulla quale stava un ovale sul quale era dipinta la Madonna dell’Arco con ai piedi S. Lucia
In questa Chiesa, generalmente, i nuovi Vescovi vestivano gli abiti Pontificali per l’ingresso ufficiale in Città, attraverso una processione solenne con tutto il clero fino in Cattedrale e prendere così possesso della Diocesi.
Addobbo del "Sepolcro" che si realizzava nel periodo di Pasqua
nella chiesa di S. Lucia prima dei bombardamenti
URBANISTICA-
nella prima metà dell''800
La realizzazione della nuova strada Consolare per Palermo, attraverso sbancamenti e demolizioni, è da considerarsi  un vero e proprio “fuori scala” urbanistico.
Bastone del Collegio realizzata dal Comune su progetto dell'arch. Gaetano Lopiano
Vecchia cartolina con il bastione del Collegio
Con la realizzazione del Bastione del Collegio, si crea un nuovo asse ampio e diritto, che da origine ad una nuova “crux viarum” dell’urbanistica moderna che renderà possibile l’allestimento dei grandi spettacoli processionali come quello del Giovedì Santo, che originariamente partiva proprio dal cortile del Collegio Gesuitico.
L’abbellimento del bastione è stato successivamente realizzato su progetto  dell’arch. Comunale Gaetano Lo Piano, già impegnato nella costruzione del Giardino Pubblico “Villa Isabella” (villa Amedeo), dopo i luttuosi eventi del 1820. Fu incaricato anche del completamento della facciata della  Chiesa madre, eretta a  Cattedrale  nel 1844, ecc.
La città, come nuovo capovalle, si è dotata di nuovi uffici, strade , moderni edifici civili e religiosi, per garantire “servizi” al popolo.
In questo periodo si realizza anche  l’altro bastione di Sant’Antonino  a seguito del taglio della collina della Provvidenza, per la costruzione della nuova strada per Piazza (Armerina).
Facciata della Chiesa di S. Lucia vista da via Arimondi


SANTA LUCIA- FESTA DI LUCE
Illuminare la notte
l'ulivo, l'ape, l'olio e la cera
fuoco e luce.

In tanti paesi la notte di Santa Lucia, si mettevano i lumi alle finestre per illuminare la strada verso il Paradiso alle anime purganti.
Secondo la tradizione, Lucia con una lampada fissata sul capo, percorse gli angusti cunicoli delle catacombe, per distribuire ai bisognosi, il denaro ricavato dalla vendita della sua ricca dote.
Nei paesi scandinavi le ragazze  vestite con una semplice tunica, si cingono la testa con corone di candele e sfilano lungo le strade intonando canti sulle note della canzone napoletana “S. Lucia”:

Sul mare luccica
L’astro d’argento.
Placida è l’onda;
prospero è il vento.
Venite all’agile
Barchetta mia!
Santa Lucia, Santa Lucia...
La vita è racchiusa e straordinariamente  condensata nel trinomio Lucia-luce-fuoco, ricordando che in dialetto il fuoco lo chiamiamo “luci”, mentre la luce è “lustru”. E quindi in dialetto: Lucì, lustru e luci
Chi non ha mai esclamato l’espressione “Santa Lucì!” per chi cerca una cosa senza vedere che gli sta davanti appunto sotto gli occhi?
Lucia, femminile del nome latino Lucius, deriva da lux, cioè luce, che veniva imposto a chi nasceva all’alba. Il nome di Santa Lucia si invoca contro le malattie degli occhi.
L’iconografia tradizionale ci tramanda la figura di Santa Lucia, vergine e martire siracusana morta decapitata nel 304 durante la persecuzione di Diocleziano, come una giovane bellissima vestita di verde che porta con la destra un vassoio (alzata) sul quale sono posati gli occhi, strappatigli  dal corteggiatore rifiutato (altra versione vuole invece che se li sia strappati da sola inviandoli al corteggiatore innamorato dei suoi occhi), la palma del martirio nella deistra e la spada infissa nel collo.
La statua della santa che oggi vediamo è recente, considerato che quella antica è andata distrutta dai bombardamenti che hanno interessato la chiesa.
  Il nuovo simulacro si presenta con la Santa in piedi,, nella mano sinistra tiene  la classica alzata, nel piattello della quale sono collocati  i  simboli abituali del Suo martirio, gli occhi (che la tradizione vuole Le siano stati strappati). mentre con la mano destra tiene un libro e la palma del martirio.
Sulla testa, dalla bionda capigliatura raccolta all’indietro, porta una corona ornata da grosse pietre preziose.
Indossa una veste di colore verde chiaro con decori in oro e azzurro, stretta alla vita da una cintura in oro come l’orlo della veste e della scollatura, dalla quale si vede la sottostante  tunica bianca arricciata al collo.
Il mantello rosso, con decori damascati in oro, le avvolge la spalla sinistra ed è trattenuto sul libro  che la Santa  tiene con la mano destra che trattiene l'altro lato del mantello.

Nel viso, dai tratti estremamente morbidi e delicati ,colpisce lo sguardo languido e, allo stesso tempo, dolcissimo 
che sembra rifulgere di un bagliore riflesso di Luce divina, che La rende leggiadramente pura ed eterea.
Vi invito, comunque ad osservare la somiglianza  di questa statua con l'affresco sopra descristto.
Gli Atti del suo martirio, il cosiddetto Codice Papadopulo, narrano di una giovane, orfana di padre, appartenente ad una ricca famiglia di Siracusa, che era stata promessa in sposa ad un pagano
Lucia decise di rinunciare ai suoi averi dopo che le apparve in sogno Sant'Agata, patrona di Catania.
Abbandonando così l'idea del matrimonio, Santa Lucia indusse il fidanzato a vendicarsi di lei denunciandola come cristiana.
Il processo che Lucia sostenne dinanzi all'Arconte Pascasio attesta la fede ed anche la fierezza di questa giovane donna nel proclamarsi cristiana. Minacciata di essere esposta tra le prostitute, Lucia rispose. "Il corpo si contamina solo se l'anima acconsente". Il proconsole allora ordina che la donna sia costretta con la forza, ma lei diventa così pesante, che decine di uomini non riescono a spostarla. Il dialogo serrato tra lei ed il magistrato vede addirittura quasi ribaltarsi le posizioni, tanto da vedere Lucia quasi mettere in difficoltà l'Arconte che, per piegarla all'abiura, la sottopone a tormenti.
Lucia esce illesa da ogni tormento fino a quando, inginocchiatasi, viene decapitata.
La sua iconografia vede spesso gli occhi accompagnati dal pugnale conficcato in gola. Il motivo di questa raffigurazione è da spiegarsi con il racconto dei cosiddetti Atti latini che descrivono la morte di Lucia per jugulatio piuttosto che per decapitazione.
Il corpo della santa, prelevato dai Bizantini, dal suo “loculo” a Siracusa, è stato, prima portato a Costantinopoli da Maniace, e  successivamente trafugato dai Veneziani dopo la decisione del Doge Enrico Dandolo, nel 1204,  di trasferire a Venezia il corpo della Santa, quando Costantinopoli cadde sotto i Crociati, oggi si trova ora a Venezia nella chiesa dei Santi Geremia e Lucia.
Secondo una leggenda priva di fondamento oggettivo, la discendenza della santa siracusana proverrebbe direttamente dalla famiglia di  Archimede, legando così le due figure più importanti della città ad un unico ramo genealogico.
Privo di ogni fondamento, ed assente nelle molteplici narrazioni e tradizioni, almeno fino al secolo XV, è l'episodio di Lucia che si strappa gli occhi. L'emblema degli occhi sulla tazza, o sul piatto, è da ricollegarsi, semplicemente, con la devozione popolare che l'ha sempre invocata protettrice della vista a causa del suo nome Lucia.
La vista, considerata come bene essenziale e primario della quale non vogliamo privarci, tanto da essere nominata come garanzia nei giuramenti  “urbi  di l’ucchi”.  
Prima della riforma del calendario giuliano (1582), che sostituì quello gregoriano, (la differenza è di 10 giorni)  il 13 dicembre, giorno di Santa Lucia,  coincideva con il solstizio d’inverno, che era considerato  il giorno più corto dell’anno, dal quale il detto “Santa Lucia ’u jornu cchiu curtu ca ci sia. E questa tradizione, scientificamente non esatta, è rimasta invariata e tramandata sino ai nostri giorni.

Altri detti hanno lo stesso significato:
Santa Lucia a’notti cchiu longa ca ci sia. 
Santa Lucì i jorna incuminciano a crisciri arrì.
Pì’ Santa Lucì si mancia ‘a cuccì
È curioso notare che questa tradizione si può applicare nell'ambito del calendario gregoriano, avendo però l'accortezza di interpretare il "giorno più corto" come il giorno in cui il sole tramonta prima.
La celebrazione della festa in un giorno vicino al solstizio d'inverno, è probabilmente dovuta alla volontà di sostituire antiche feste popolari che celebravano la luce e si festeggiano nello stesso periodo. Altre tradizioni religiose festeggiano la luce in periodi vicini al solstizio d'inverno come ad esempio la festa di Hanukkah ebraica, che dura otto giorni, come le celebrazioni per la Santa.
Questo periodo, dal 13  al 24, collegato agli antichissimi riti solstiziali, viene osservato come propedeutico dei dodici mesi del nuovo anno.
Il mese di dicembre, come gli altri, era scandito dagli indovinelli“ ‘a ‘nnuminaglia” o miniminaglia” così uno recita:

"Diciemmiru : o rui Cuonu, o quattru Barbara, o sia Nicola, l'uottu Marì, o tririci S. Lucì e o vinticincu 'u veru Missia"

(Spiegazione: Nel mese di dicembre si festeggiano il 2 S. Cono, il 4 S. Barbara, il 6 S. Nicola, l'8 Maria Immacolata, il 13 S. Lucia ed il 25 il Natale di Gesù (vero Messia).
Cappelletta decorata per la "novena"

    In questo modo il Capofamiglia, indicava i numeri, che non si pronunciavano e si associavano ai Santi e alla smorfia de lotto, nel gioco della tombola quando, nelle sere d’Avvento, si riunivano i parenti attorno ad un tavolo, che  mettevano il fagiolo, il lenticchio, la fava secca, i bottoni ecc. sul numero corrispondente della cartella se c’era.
Queste riunioni familiari, allargate ad amici e vicini, si svolgevano accanto al braciere e  ai “tangini” (scaldini) di carbonella o di “ginisi di scorci di minnula” carbonizzati   che prevalentemente le donne mettevano tra le gambe, alla luce dei lumi a petrolio o delle lumere,  gli odori si mischiavano da quello dolce dell’olio a quello aspro del carbone e del petrolio.
Sul comò di tutte le case, in bella vista era “cunzata” a nuvena: lo specchio veniva coperto dalla carta stellata e nel piano e sopra lo specchio venivano ordinati in fila e posti a perimetro  i frutti di stagione più belli: aranci, puma, mannarini, nispuli di 'mmirnu e murtidda e addauru  (arance, mele, mandarini, nespole d’inverno e l’immancabile mortella o mirto e rami di alloro), al centro il Bambinello di cera e il lumino ad olio (un bicchiere con dell’acqua e olio) con il miccu addumatu (lucignolo) galleggiante.
L’uso dell’utilizzo dei rami e dei frutti, è semplice figurazione, legata alla terra e  retaggio delle feste latine
La sera, davanti a questa novena così addobbata, si recitava il rosario e si intonavano canti natalizi come:
...
cch’è bedda ‘ssa murtidda,
è bedda carricata
cci cadi la jlata,
cchiù bedda si fa.                                     Traduzione:              
Come sono belli questi rami di mirto,
così carichi di bacche
il gelo che li ricopre,
li  rende più belli.
Altra tipologia di addobbo della "Novena" realizzata davanti una "fguredda" (cappelletta)
con rami di "murtidda" (mirto) frutti  intrecciati e "addauru" (alloro), davanti alle quali
i "ciaramiddari" (zampognari) suonano le nenie natalzie e alle "ladate" (.
Ai luoghi di culto deputati alle scene presepiali e delle novene, allestite in ogni casa, si irradiavano forme strumentali e vocali di antica memoria, ai quali si affidava il compito rituale di sacralizzare gli spazzi vissuti e abitati nel segno del culto per il Bambino Gesù, espressione tangibile della vita che rinasce.
    La "laudata" o "lamintanza",diversa da quella che s'intona durante la Quaresima, la tradizione sconosce l'epoca nella quale sia comparsa per la prima volta, questo canto così struggente e originale, é esclusivo di Caltanissetta, ma con variazioni , lo ritroviamo in altri comuni.
Alle strofe fu data dal popolo un'intonazione monotona e lamentevole, da questo forse il nome "lamintanza", che tramandata da padre in figlio si é conservata quasi fino a noi.
A Caltanissetta a dominare musicalmente la scena della Natività era la ciaramedda, ovvero la zampogna che accompagnava i laudanti. I gruppi, erano contadini o zolfatai  messi in crocchio nelle strade o riuniti nelle bettole davanti ad un bicchiere di vino e ad una tazza con zuppa di ceci o di fagioli per poi continuare nuovamente per le strade.
Bastavano poche persone per eseguire questa cantilena.
Uno, quello che presume di essere in grado, perché la conosce tutta o più strofe, fa da "prima vuci", intona il canto; l'entusiasmo che lo pervade con repentine modulazioni della voce e con movimenti  mimici coinvolgeva gli astanti.
L’arcaico suono della “ciaramedda” (zampogna) ci rimanda all'antica offerta musicale agro-pastorale, infatti lo strumento altro non è che una sacca detta “otre”  realizzata con pelle e ventre  di capra, pecora o montone; nel foro ricavato dal collo dell’animale si inserisce un blocco di legno dentro il quale si attaccano le canne, cioè i tubi sonori.
L’attuale chiesa è la terza, infatti la prima dedicata alla Madonna dell’Arco, chiamata così per la presenza della Porta Settentrionale della città. demolita per la livellette per la costruzione della strada consolare carrabile per Palermo intorno al 1830; la seconda, costruita lo stesso anno sul lato opposto, che si intravede in alcune antiche foto e distrutta durante i bombardamenti del 9 luglio del 1943; la terza, l’attuale, progettata dall’arch. G. Averna a pianta centrale (ottagonale) ed inaugurata dal 5° V Vescovo della diocesi mons. Giovanni Iacono il 7 maggio del 1950.
La “ciaramedda” porta impressa, inoltre la memoria dell’ideologia arcaica della festa, quella che si nutre dell’ostentazione di sovrabbondanza mentale, fisica, alimentare, dunque dell’orgia, necessaria all’economia del sacro e alla rigenerazione ciclica della vita.


"La festa di S. Lucia
Il mercato. Gli occhi di cera. La cuccia.
Fino a non molto tempo fa, per S. Lucia, si faceva uno speciale mercato nel quale oltre che mortella, come oggi, si vendevano mele, arance, fichidindia, nespole e altro da servire per la grotta di Natale.
Un’usanza che ancora continua era quella della “cuccia” grano ammollato cioè, che viene cotto con ceci.
Un’usanza che è completamente scomparsa era quella dell’offerta a S. Lucia di occhi fatti di cera in ringraziamento di grazie ricevute. Ora tale uso è sostituito con quello generico di offrire alla Santa delle candele di cera".   Da la Favola bella di Enzo Falzone del 1963. pag. 83.

LA CUCCIA
Altra tradizione è quella della “cuccìa” il grano che viene bollito nell’acqua o nel latte che, con rima baciata, si mangia in suo onore.
La tradizione vuole che questa pietanza sia nata a Siracusa  nel XVII secolo, durante la dominazione spagnola, dopo una grave carestia che aveva interessato l’intera Sicilia. Il giorno di S. Lucia giunse nel porto della città, una nave carica di frumento, questo fatto è stato interpretato come miracolo per l’intercessione della Santa, protettrice della città, per questo motivo si è tramandato l’uso di mangiare la “cuccia” il giorno a lei dedicato.
Priva di fondamento la leggenda che vuole che in quell'occasione i siracusani cucinarono di fretta i cereali per nutrirsene facendo così nascere la tradizione della cuccìa
Il nome “cuccìa” sembra derivi dal sostantivo “cucciu” chicco, o dal verbo “cucciare” sgranare, piluccare, cioè mangiare un chicco alla volta.
    Le ricette variano da zona a zona, dal dolce al salato, quella nissena è prevalentemente salata abbinata  con un altro legume tipico del territorio come i ceci.
La preparazione  della “cuccìa”, rappresenta quasi un rito nelle famiglie siciliane. Bisogna  ricordarsi di ammollare il frumento  per almeno tre giorni, cambiando continuamente l’acqua, prima di cucinarlo. Stessa cosa si fa con i ceci però solo per una notte. Si  pongono poi sul fuoco in una pentola piuttosto grande e si fanno bollire molto lentamente con le foglie d’alloro e un pizzico di sale, fino a quando il frumento sarà tutto aperto e l’acqua sarà diventata color latte.
Si passa poi al condimento con olio extra-vergine d’oliva sale e pepe.
Alcuni la preparano con il solo grano e molto asciutta, quasi a sgranarla, le rimanenze venivano gettate sui tetti o sposti sui davanzali per dar da mangiare agli uccelletti.
Le altre ricette sono con latte e zucchero, con ricotta, cioccolato e cannella, con mostarda e miele.
E la luce fu.

Molto presto vi parlerò dell'illuminazione a Caltanissetta che la rendeva unica e talmente sfolgorante che ho pensato di chiamare Caltanissetta, parafrasando Leonardo Sciascia,  che l'ha definita "piccola Atene"......
......."piccola ville Lumiere" attraverso le storie sull'illuminazione pubblica, privata e religiosa....dalla torcia  all'elettricità passando per il gas.

continua...

                         


martedì 15 novembre 2011

CALATANIXECTA SERVANDA EST 3° parte

CALATANIXECTA
SERVANDA EST
(Caltanissetta deve essere salvata)

Ӝ
MULINO- PASTIFICIO F.LLI SALVATI:
IL PRIMO E … L’ULTIMO
Ӝ

QUANDO CALTANISSETTA……….
SI AVVIAVA AD DIVENIRE CITTA’ INDUSTRIALE,
COME ACCADEVA IN TUTTO IL REGNO DELLE DUE SICILIE, ADOTTANDO TUTTE LE INNOVAZIONI TECNOLOGICHE DEL TEMPO.
PREMESSE QUESTE AVVIATE CON SUCCESSO IN PERIODO BORBONICO E………ANDATE AVANTI PER FORZA D’INERZIA … E  MAN MANO SCEMATE CON L’UNITA’ D’ITALIA ……. FINO……… A SPARIRE DEL TUTTO CON LA REPUBBLICA
Ӝ
Giuseppe Saggio
Ӝ



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terza parte




Mi scuso,  ancora una volta per il ritardo per questo nuovo appuntamento, dovuto sempre per motivi tecnici e o per la mia scarsa dimestichezza con questo tipo di attrezzature , spero di darvi altre notizie al più presto.
Le foto sono di Giuseppe Castelli, le cartoline sono tratte dalla mia collezione.


Si ringrazia la sig.ra Maria Arcadipane, proprietaria della  "Torre", per la disponibilità dimostrata e aver permesso di fotografarala.

…….Continua…..





TORRE COLOMBAIA
Il Mulino fu costruito nel XIX sec., attorno ad una preesistenza, della quale è rimasto un avanzo, che si distingue a malapena.
Una costruzione nelle pareti della quale sono ricavate delle celle colombaie.
Questa costruzione, passata nel dimenticatoio per secoli, in quanto non presenta vistose e appariscenti tracce architettoniche perchè considerata una costruzione di campagna dove era consuetudine lasciare nei sottotetti spazi per “allevare” i colombi.

In questa vecchia immagine è ancora visibile nell'angolo a sinistra , il pluviale in terracotta  (catusi)  già sostituito con    altro in alluminio come la grondaia, oggi, come si vede nelle immagini successive, sostituiti totalmente da uno in pvc.
In primo piano ,invece,  una canna fumaria, sempre con elementi in terracotta (catusi) ancora esistente.
Pluviale e canna fumaria sono costituiti da stessi elementi i "catusi", la differenza consiste solamente nel montaggio:
il "catuso" è un tronco di cono, rastremato verso la parte più stretta che si incastra con la parte più larga:
quando si utilizza come pluviale si posiziona l'incastro in basso, in modo da permettere il deflusso ad imbuto;
quando di utilizza come canna fumaria allora si posiziona verso l'alto in modo da agevolare la salita del fumo.

 particolare di "catusi"

Se osservata attentamente, la torre denuncia la sua vera origine, che per diversi elementi possiamo datare invece, almeno, tra il XII e il XVI sec, come documentato da una finestra ad arco ogivale,  dalle celle per i colombi anch’essi di forma ogivale, e da un brano di  muratura a colombage, (unicum in Sicilia).



   Lato nord della torre colombaia del  vecchio centimolo con finestra con  arco a sesto
 acuto e parte della  colombaia, la canna fumaria con "catusi". 
   All'angolo a sinistra,  si vede il pluviale sostituito  da uno in pvc.
   Il tratto a sinistra, verso il pluviale, era lo spazio aperto per tutta l'altezza, occluso con blocchetti
di cemento, la grande finestra coincide con il corridoio realizzato.                             


 
 Facciata ovest della torre, dove sono visibili i filari della colombaia in parte
(danneggiate dall’apertura di una finestrella) e occlusa nella parte inferiore 
dalla realizzazione  di un ballatoio  coperto, con relativa finestra  (occludendo 
un balcone) per disimpegnare  e consentire l'accesso diretto con la strada ad  
uno dei nuovi appartamenti ricavati. 


Immagine  recente, dove è visibile la canna fumaria e a destra il pluviale in plastica bianca.
Caratteristiche peculiari queste, che ritroviamo simili in altri monumenti sicuramente datati come quelle nel convento dei Tre Re, nella torre araba a S. Spirito, (sec. X-XIII) e la torretta dell’Aquila Nera,  (sec XV -XVI), ecc.
Non indico altri esempi perché successivi (cosiddetta torre del Magistrato, torretta del primo convento dei cappuccini-Averna,a ecc.) e non comparabili con la nostra costruzione.
Finestra ad arco ogivale


Particolare di una cella colombaia ad arco ogivale
     con tamponatura sagomata e ripiano in terracotta

(pianelle).
La nostra costruzione presenta caratteristiche costruttive ed accorgimenti tecnici di tale raffinatezza come è documentato da una finestra con arco ogivale, le celle per i  colombi sono anch’esse di forma ogivale con la base con mattone sottile di terracotta (pianella), oltre ai materiali impiegati e alla perfetta esecuzione dall’intonaco in gesso, ancora in perfetto stato di conservazione, particolari questi, che non si riscontrano nelle comuni colombaie ed ad altre torri, per esempio  in Puglia ecc.

Si può pertanto pensare ad un proprietario committente di alto lignaggio (che le ricerche potranno indicarci) che si poteva permettere un direttore dei lavori di alto livello come un præpositum ædificiorum.
Non bisogna scordare che spesso nel Regno di Sicilia  esisteva un corpo di funzionari regi, i protomaestri, preposti alla realizzazione degli edifici demaniali. Erano gli architetti di stato i cui ruoli esistevano fin dal XII sec, sotto la dinastia degli Altavilla. Volendo semplificare con drastica sintesi si può affermare che alle tipologie tradizionali delle torri di difesa (castrum donjon) si aggiunse l’apporto della spazialità dell’architettura dei conventi cistercensi, per la proposta sempre più complessa delle forme miste sino al suo trionfo finale , come è dimostrato dalla complessità dei resti del convento dei Tre Re  -Villa Barile Castelletto, del portale e dalla bifora sull’ingresso (prima dei “restauri” datato XII sec.), delle aperture dell’Abazia di S. Spirito (datati al XI) sec., compreso il portale esterno, prima che venisse rimosso durante lavori di “restauro” effettuati.

CONFRONTI CON ALTRI ESEMPI DATATI


          
Portale d'ingresso e sopra la "bifora" di
"Villa Barile (Castelletto -Convento dei 
Tre Re?) con intonaco originale in gesso;
sono visibili i "resti" per la stesura dello
intonaco. Prima dei "restauri"







particolare della "bifora" nel quale si
evidenzia il fornice tamponato



Stesso particolare dopo i “restauri” dove è stata 
totalmente coperta dall'intonaco, un fornice della 
"bifora" 


Immagine delle strutture precedenti  alla costruzione di Villa Barile
in primo piano, attribuibili al monastero chiamato dei Tre Re (o dell'Epifania
di la Tufanì), datato intorno al XII sec. Il portale e le feritoie dell'esedra del
giardino, non ancora (fortunatamente) interessati dai restauri.

Dalla parte del giardino si vedono due esedre con feritoie  con all’interno lo sguincio ad arco ogivale; nell’esedra di dx (NE) si trova un’apertura ad arco ogivale, all’interno più grande; alle estremità, verso la strada, si osserva che le esedre sono state tagliate e concluse con tratti di mura retti e ad angolo retto raccordati con l’attuale muro di contenimento, proseguito poi verso il torrione ottocentesco; tra le due esedre e in corrispondenza del predetto muro di contenimento , sulla strada, di trova un torrione circolare con tracce di feritoie in corrispondenza del muro stesso;



Immagine di villa Barile con i primo piano il Convento dei Tre Re prima dei “restauri” dove sono visibile le aperture ad arco ogivale

   


Particolari di aperture della torre di S. Spirito e il portale originale in pietra bianca demolito per consentire l’accesso a mezzi meccanici durante i lavori di ristrutturazione eseguiti negli anni settanta, alla fine il portale ricostruito in  stile   con pietra di Sabucina e con dimensioni maggiori.
 Torre circolare (pozzo arabo sec. XII)  con finestra ad arco ogivale  in c.da Pian del Lago  inglobata a costruzioni più recenti.
 Anche queste tutti demoliti per dar posto  ad un nuovo  ed anonimo“villino” .......con tutte le dovute e necessarie autorizzazioni.
Queste caratteristiche di torre dove sono ricavate delle colombaie, sono da ritenersi un unicum del genere in Sicilia, considerato che l'unico l’altro esempio noto, si trova a Trapani dove con il nome di  “Torre Colombaia” si identifica una antica torre, che quando era stata abbandonata, divenuta rudere, era quindi il posto ideale pei i colombi per nidificare o sostare, infatti secondo alcuni, questa torre trae il suo nome da una leggenda che la vuole sosta privilegiata di questi uccelli, durante le migrazioni, prima di affrontare lo sforzo della traversata del mediterraneo verso l'Africa.
La sua antichissima origine è attribuita ad Amilcare Barca, al tempo della prima guerra punica.
.Successivamente anche se riutilizzata  in vari modi, da faro a carcere ecc ha mantenuto il nome con il quale era conosciuta, pertanto non nata con tale scopo.
Da queste leggendarie origini, nasce il famoso detto popolare: "cchiù vecchiu di la Culummara di Trapani", per indicare qualcosa di molto antico.

Questa torre colombaia, dell'ex mulino Salvati, rappresenta un’importante testimonianza della presenza dell’uomo sul territorio nisseno. Le torri colombaie venivano costruite dai proprietari terrieri come simbolo del loro potere e erano per loro motivo di vanto e orgoglio.
Le torri colombaie caratterizzavano visivamente il paesaggio  considerato che nel nostro territorio non ci sono altre tracce (esistono nelle masserie e nelle case di campagna delle celle in alcune pareti per l'allevamento ad uso familiare).
Da sempre c’è poco interesse nei confronti di queste costruzioni a causa della loro precaria situazione strutturale e della scarsa informazione sul loro valore culturale. Questa incuria le rende da sempre soggette a demolizioni e ad adattamenti inconsueti da parte dei proprietari ignari del loro effettivo ruolo attivo nello studio antropologico del territorio.
Le torri colombaie quindi, sono entrate nel dimenticatoio comune dal momento in cui hanno perso la loro funzione originaria di struttura per l’allevamento dei colombi selvatici.
In effetti le Torri Colombaie hanno rappresentato per secoli una ricca fonte economica nel campo della agricoltura e sono state da sempre considerate segno tangibile del potere personale ed economico dei grandi proprietari terrieri e dell’alto ceto nobiliare e della Chiesa.
La maggior parte delle Torri Colombaie, infatti, era in grado di ospitare centinaia di coppie di volatili in altrettante nicchie appositamente ricavate nello spessore delle sue mura interne. Da questi semplici dati si può ben immaginare quanto queste strutture fossero redditizie e quindi ben volute.
È difficile oggi comprendere l’importanza che aveva nell’economia locale l’allevamento di questa specie di uccelli in quanto nel corso degli anni sono cambiate le abitudini alimentari della popolazione.
 Un tempo la carne di colombo era un alimento molto apprezzato e ricercato nella dieta alimentare dei nisseni in quanto ritenuto fonte di grandi proprietà nutrizionali. Veniva dato ai bambini, agli ammalati e agli anziani, ne facevano un largo consumo soprattutto le classi sociali medio alte, durante le grandi occasioni e le cerimonie ufficiali, tanto che gli venne dato il nome di “carne reale”.
Generalmente la Torre Colombaia era strutturata in modo da raccogliere anche gli escrementi prodotti dai colombi, sostanze utilizzate come fertilizzante naturale del terreno in quanto ricche di colombina, un ottimo concime a base di azoto di origine animale, utilizzato anche nella concia delle pelli.
Sappiamo infatti che a Caltanissetta è documentata l’attività  di conciatore, che in qualche modo si potrebbe definire –industriale-  già dai primi del ‘500, infatti sappiamo di tre concerie una sotto la rocca di Sallemi, l’altra a Ziboli e una terza della quale resta il toponimo nel quartiere S. Francesco, appunto via Piccola conceria.
Così abbiamo figure e famiglie di spicco che impiegano i loro capitali in questo tipo di impresa: nel 1517 il nobile Imperio Inserra vende 62 pelli di ariete a mastro Antonio e Nicolò de Sillitto per tarì 1,50 ciascuna; e  nello stesso anno mastro Lorenzo de li Pichuni compra dal nobile Jacopo de Rifrigiato “coyri di sola et agnolatorum” conci, per onze 5,20 (ASCl, Not.  B. Boccaccio, reg  236, del 18 aprile 1517 e del 16 maggio 1517).
Sappiamo che “…intorno al 1571: i mastri Pietro e Cosimo de Turi di Castrogiovanni si obbligavano a costruire sotto la rocca di Sallemi, una conceria di cui venivano precisate le misure, con il suo fossato di scolo (ASCl, Not. G. B Maddalena, reg 11, c. 1003 del 31 luglio 1571).
Nei riveli del 1593 la conceria di Sallemi, valutata 250 onze, apparteneva a Pietro Venegas che l’aveva comprata poco tempo prima, da Geronimo Stilla. (ASP, T.R.P, Reveli, reg, 105, 1593, c. 224. all’interno della conceria vi era pellame valutato per 200 onze, mentre  ancora Geronimo Stilla aveva, nella sua casa, 60 “coiri conzati”).
La conceria funzionava ancora nel 1635 in quanto i giurati ordinarono che mastro Raffaele Falci, che teneva in governo l’acqua di lo Bagno, facesse una conduttura nuova dall’abbrivatura di Sallemi sino alla conceria (ASCl, Not. F. La Mammana, reg  380, c. 144 dell’agosto 1635).” –Rosanna Zaffuto Rovello “Caltanissetta Fertilissima Civitas  1516 – 1650” pgg. 152-53

Le Torri Colombaie si possono dividere in due tipi principali, a seconda della loro forma:  a pianta quadrata a pianta circolare, costruite seguendo lo schema delle più conosciute torri di avvistamento costiere delle quali riprendono addirittura caditoie, feritoie e merli di coronamento.
Le Torri Colombaie a pianta circolare hanno in media un diametro di 25 metri e un’altezza di un decimo superiore alla circonferenza. Questo rapporto crea una struttura massiccia e tozza, in quanto manca lo slancio verso l’alto, sviluppando un volume in larghezza.
Le Torri Colombaie quadrangolari, pur mantenendo la stessa ampiezza, sono invece più basse e più rudimentali anche nei decori.
Tra le diverse singolarità ricordiamo che molte torri a primo piano presentavano locali adibiti ad abitazione o deposito, o altre costruite sopra ai trappetti.
Inoltre come segno distintivo accanto alle Torri Colombaie vi era quasi sempre una riserva d’acqua, che serviva per l’abbeveraggio dei volatili. Queste fonti erano costruite in modo tale che ci fosse sempre acqua pulita e si potesse sfruttare con appositi accorgimenti tutta la superficie della vasca per permettere l’approvvigionamento d’acqua al maggior numero di uccelli contemporaneamente.
Oggi in seguito all’abbandono delle masserie anche le Torri Colombaie si sono svuotate, non rimane che ricordarne il loro antico prestigio e iniziare un’opera di recupero e valorizzazione in qualità di patrimonio storico.
Nelle Torri Colombaie, utilizzate solo a questo scopo, innanzitutto non vi sono porte o finestre a piano terre, esse sono completamente murate, fino ad un’altezza di 2-4 metri. L’accesso è dato da una scala a pioli che porta al primo piano. I marcapiano hanno in genere una notevole sporgenza dai 20 ai 30 cm indispensabile per impedire a rettili e roditori di intrufolarsi all’interno dell’edificio per mangiare le uova dei colombi. Anche i merli, quando realizzati con intento decorativo, servivano per far posare i colombi al loro arrivo o alla loro partenza dalla torre.
Discorso diverso per il vano interno della torre colombaia che presenta una strutturazione unica e particolare. Tutto il perimetro interno veniva infatti rivestito da un paramento di pietra dello spessore di mezzo metro e oltre. Ogni blocco di roccia era alto circa 20 centimetri e largo 27, tra una pietra e l’altra veniva lasciato più o meno uno spazio largo quasi quanto il masso in modo da creare, nella sovrapposizione a scacchiera dei blocchi lungo tutto il muro, delle nicchie per le coppie di colombi.
Ogni nicchia veniva poi chiusa all’esterno in modo da creare un ambiente interno protetto.
Delle scale interne che servivano agli allevatori a controllare l’allevamento nicchia per nicchia.
Particolare di una delle pareti dove sono ricavate le celle colombaie
 ad arco ogivali, è visibile il taglio per ricavare una finestrella
Particolari delle celle


 Particolare delle colombaie  dove è visibile il danneggiamento causato da una delle “chiavi” in ferro, (si nota la testa di una putrella in ferro, bloccata da una staffa inserita.per l'irrigidimento ella struttura quando all’interno sono stati realizzati solai per l’utilizzo abitativo (cucina, ritirata-lavanderia, ecc), accessibili dalla scala a chiocciola.
Sono visibili pure i segni delle scalfitture per consentire l'attaccamento del nuovo intonaco. 
In basso si nota il vertice dell'arco ogivale della finestra
La nostra torre, osserva in parte queste caratteristiche,  è quadrata di circa m. 4 x 4, vicino una sorgente d’acqua, nelle due facciate (visibili) si contano più di sessanta celle, non possiamo sapere nelle altre due in quanto inglobate nella struttura, in quelle visibili, alcune celle sono state distrutte per l’apertura di una finestrella per l'inserimento delle chiavi ecc., non possiamo, nelle attuali condizioni, sapere se fosse più alta, merlata...
Resiste ancora il residuo di una canna  fumaria  realizzata con tubi di terracotta (catusi), mentre il pluviale realizzato con gli stessi “catusi” è stato di recente rimosso per essere sostituito da uno moderno in pvc.
Pertanto la costruzione svettava al centro della valle costellata di puntare e grotte, utilizzate per diversi scopi. 
Tra questi utilizzi bisogna ricordare che due di queste sono state utilizzate come cappelle:
una è-ra quella costruita nel luogo dell’apparizione di S. Michele, “Posteriormente all’apparizione, fu fabbricato nel luogo stesso ov’era la grotta una piccola Chiesa detta San Miceli (e San Micieli) così tutt’ora nominata: l’altare fu fabbricato proprio nel sito della grotta. In essa recavasi ogni anno il Clero nella processione delle Rogazioni. Nel principio di questo secolo cominciò ad essere abbandonata, si che si rovinò il tetto. Nella Breve storia citata (ms. del Segneri) si ha: la chiesetta poi essendo quasi diroccata, nel 1837 il popolo avendo implorato la protezione di S. Michele, vide con grata sorpresa che pochissimi morirono di cholera: e perciò fu fabbricata a spese della città (del popolo) nello stesso sito una chiesa più grande  e più elegante….” N. Diliberto, Apparizione di S. Michele Arcangelo in Licata ed in Caltanissetta (1624-25) – nota 8 pag. 44.-   F. Pulci, Lavori sulla Storia Ecclesiastica di Caltanissetta p.367
Dai recenti restauri, che hanno liberato i muri laterali della chiesa, dall’intonaco che li ricopriva, portandoli la muratura a vista. 
 Guardando attentamente il laterale della chiesa ho notato che la muratura non è omogenea, infatti nella parte bassa ha una tessitura più disordinata con al centro le tracce di un arco; da questi elementi posso affermare che questo lacerto di muratura appartiene alla cappelletta originaria del XVII sec. costruita a chiusura della grotta, con la facciata e il portale lungo la vecchia trazzera delle calcare, (che conduceva al conventino di S. Antonino lungo l’attuale via due Fontane, da tempo trasformato in abitazioni), dopo l’abbandono, come detto nel documento precedente, si rovinò il tetto, e successivamente, quando si decide di ingrandire la chiesa nel 1837, non potendola allungare, perché si trovava davanti la  trazzera e la puntara, hanno pensato di ingrandirla lateralmente potendo utlizzare maggiormente lo spazio, costruendo la facciata come fondale della trazzera che saliva e realizzando un sagrato con muretto che lo delimitasse, si utilizza così la muratura della facciata originaria, come laterale della nuova chiesa che avrà la facciata rivolta ad est.
Una situazione simile l’ho riscontrata nel 1992, quando, nella qualità di Direttore dei lavori di restauro della chiesa di Santa Flavia intervenendo nella parete esterna della chiesa  ad ovest (lato via Card. Dusmet), dopo la demolizione del campanile in cemento armato aggiunto negli anni '50, la presenza di alcuni elementi anomali quali un portale in pietra tufacea murato, due finestre simmetriche riquadrate come il portale, un occhio, pure tamponato, sopra il portale, la traccia delle falde di un tetto, mi hanno indotto ad una più accurata ricerca e lettura della stessa muratura per avvalorare la mia teoria secondo la quale tutti questi elementi, sono tipici di una facciata di chiesa orientata a ponente. E quale chiesa poteva essere se non quella di Santa Venera risparmiata ed utilizzata come muro laterale della nuova chiesa di Santa Flavia orientata a mezzogiorno?
La presenza del contrafforte, del campanile prima, e di due altre aperture tamponate, realizzate in tempi successivi, rompevano l'unitarietà della parete e non ne permettevano la corretta lettura.
La presenza del contrafforte,che taglia la facciata, è giustificata dalla necessità di contrastare la spinta che l'eccessiva mole della nuova chiesa esercitava in questo punto, essendo il muro troppo sottile (cm.80) per poterla assorbire.
Della chiesa  di S. Venera abbiamo l’ordine di pagamento per Maseo Drago, importante mercante del ceto emergente, che chiede ai Giurati della Città un ulteriore compenso come "lucro e commodo personale" per la "maramma" di Santa Venera; (ASCL, Not. A. Naso, reg. 1, c. 175r del 3 luglio

Tracce della muratura della cappella dell’apparizione  di S. Michele del 1625, si vede l’arco del portale di  ingresso, sulla quale è stata costruita la nuova chiesa (sono visibli.le tracce del crollo del tetto indicate da Pulci e l'ingrandimento descritto nel manoscritto del Segneri). 
È  chiaramente visibile la diversa  tessitura della muratura, disordinata  a "pezzamme" la parte antica, ordinata  la parte laterale e superiore.

Facciata della chiesa di S..Venera (fine XVsec. inizi XVI sec.), evidenziata durante i restauri  della chiesa di S.ta Flavia del 1992, dove  nel muro laterale,  si sono individuate le falde del tetto, il portale definito con pietra di Sabucina con sovrastante oculo. 


Incisione tratta dal giornale “Le cento città d’Italia - Supplemento mensile illustrato del Secolo” di lunedì 25 aprile 1892.
In basso a destra, in primo piano si vede il mulino Salvati, riconoscibile dalla forma e dalle fasce bicolore. A sinistra la puntara  con la forra a ridosso della trazzera per Palermo (oggi via Sallemi) e il pianoro dove oggi si trovano le palazzine INCIS.
Sulla linea d'orizzonte,  in alto a sinistra la chiesa e il monastero benedettino di  S.Flavia, a centro la chiesa di S. Agata al Collegio, a destra palazzo Moncada e il Carmine. Il palazzo al centro e le abitazioni accanto corrispondono a v.le Testasecca







Particolare del la foto storica del mulino dove sono visibili  le
caratteristiche fasce bicolore, 
e la puntara a destra

Particolare dell'incisione dove è chiaramente identificabile il mulino, con le caaratteristiche fasce.
Particolare della puntara residua dietro i palazzi di via Sallemi
L’altra grotta era quella della Madonna della Rosa che si trovava poco più avanti ”Sulla roccia a destra della via che va alla chiesa dell’apparizione di S. Michele (S. Miceli) in campagna, s’innalza la prospettiva di questa chiesuola  nella parte anteriore edificata e nella posteriore incavata nella roccia in fondo alla quale era dipinta sul muro l’immagine della Vergine che dà una rosa al Bambino. Una vecchierella chiedeva l’elemosina ai passanti per accendervi la lampada. Fu dopo il 1840 mutata in chiesuola……” F. Pulci, Lavori sulla Storia Ecclesiastica di Caltanissetta p.260.

Accanto a alla torre si sarà sviluppato uno dei tanti mulini  che erano disseminati in questa zona (dalla Gazia a Palmintelli possiamo datare intorno al XV -XVI sec.) che proprio per questo si ha preso il nome di contrada Centimoli. (note rosse)
particolare della mappa IGM, con rilievi del 1865-67 con il nome della contrada.
I mulini ad acqua non ebbero infatti nel Medioevo ed in età moderna un particolare sviluppo in territorio di Caltanissetta; certamente non lo ebbero come in altri paesi confinanti o vicini, per la scarsità di corsi d'acqua perenni.
Evidentemente ciò dipese più che dalla natura dei luoghi, dal ruolo politico militare della città e dal potere che vi esercitò la presenza opprimente e monopolistica dei Moncada; infatti essi forti dello “jus prohibendi” erano proprietari di tutti i mulini, che facevano parte integrante dei beni feudali.
Specie nelle annate sterili, una delle principali preoccupazioni dell’università, dominata dai Moncada che facevano fortuna speculando sul commercio del grano, era quella di assicurare il grano sufficiente sia per il pane dei cittadini e dei soldati di presidio, sia ai coloni per poter seminare.
Così facendo i possidenti si assicuravano da una parte il controllo sociale, prevenendo il pericolo di sommosse popolari, dall’altra l’accumulazione. Essi impedivano la ribellione, la morte per fame o la fuga dei coloni, eventi che si sarebbero ripercossi sull’economia della città, lasciando i campi sfitti, desolati e incolti. Una volta ottenuti raccolti sufficienti, tramite la concessione dei terreni, il cappio dell’usura ed il prestito delle sementi, ai quali i coloni avevano dovuto sottostare per potersi alimentare e coltivare, era assicurato al principe ed agli altri grandi proprietari come il clero.
Perciò, subito dopo una raccolta scarsa, i governanti fissavano la quantità di grano che necessitava sia per assicurare il pubblico pane della piazza fino al nuovo raccolto, sia per poter seminare. Essi procedevano quindi al “ratizzo”, a ripartire cioè il fabbisogno di grano per la città tra i mercanti, i quali dovevano fornire a seconda della quantità racchiusa nei loro magazzini.
L’attività molitoria era regolata e tassata dall’università ed il governo cittadino, dominato dal secreto dei Moncada che favorì la proprietà e lo sviluppo di centimoli, per uso proprio, per produrre farina per conto di terzi e per rifornire le pubbliche panetterie.
L’esistenza di mulini “centimoli” solo dentro le mura, se da una parte era condizione importante per un vettovagliamento anche in caso di assedio, dall’altra dava l’occasione alla nobiltà locale di esercitare il controllo della farina; monopolio che sarebbe subito venuto meno nel caso che sul territorio civico avessero potuto operare i mulini ad acqua, ben più potenti e convenienti dei centimoli.
Il centimolo, almeno fino alla fine del Cinquecento, faceva parte integrante della dimora signorile.
Esso era di solito situato in un basso o “catoyo” e al suo funzionamento era addetto un “molinaro” alle dipendenze del nobile.
I centimoli, piantati nei bassi delle case dei possidenti, erano utilizzati spesso evadendo le proibizioni e le tasse sulla macina.

NOTE ROSSE
Una precisazione sul regime giuridico dei mulini: l’uno quello dei molini ad acqua e l’altro quello dei molini azionati da forza animale:
-               I molini ad acqua, in quanto tali possano rientrare nella categoria degli iura ragalia: “non dubium est…universa huius Siciliæ ultra Farum regni molendina et paratoria acquarum ex antiquis regni eiusdem statuti set consuetudini bus perpetuo observatis, ad ius tarenorum septem et granorum decem anno quolidet Regie Curie pro saltu acquarum ipsarum in perpetuum teneri”  scriveva nei primi del secolo decimo sesto Giovan Luca Barberi (I feudi del Val di Mazara a cura di G. Silvestri in Documenti per servire alla storia di Sicilia –Società Sic. di Storia Patria), s.I, XII (Palermo 1888), p. 597).
-               -Diversa la situazione giuridica dei mulini azionati da forza animale, per l’impianto dei quali non risulta fosse necessaria una particolare licenza e che godevano di fatto di esenzione fiscale nei confronti della gabella della macina, sempre che si trattasse di attrezzature destinate ad esclusivo uso familiare (cosa che permetteva a molti contribuenti di evadere con facilità).
Va ricordato che nel linguaggio dei documenti siciliani, i mulini azionati da forza animale vengono indicati per lo più con il termine della bassa latinità centimolus. Il territorio che  si estende-va dal torrente Grazia fino a Palmintelli è-ra conosciuto appunto come Contrada Cemntimoli …perché ricca di presenze di mulini ad acqua (ricca di torrentelli), appunto i centimoli, il cui significato sembra essere, secondo il Pasqualino nel suo dizionario: “cintimulu, strumento che serve per macinare il grano  biada e si fa muovere da giumenti”, o da una fantasiosa etimologia da “cintum” perrché a questa macchina si lega il mulo, o come viene spiegato nel Lexicon græcanicum Italiæ inferioris, dal vocabolo greco composto dal verbo spingere e dal sostantivo mola.
Per far funzionare un mulino tradizionale occorreva che l'acqua scorresse sempre, considerato che dalle nostre parti i torrenti sono appunto a carattere torrentizio, per cui la pioggia era l'occasione ideale per lavorare giorno e notte, con due o tre macine. Ed ecco perché i mulini si trovano sempre nei pressi di “saie” e “torrenti”.
Si cominciava a macinare verso agosto, quando cominciavano i temporali estivi e si proseguiva fino a novembre. Poi c'era una pausa che andava fino a primavera. Considerata la scarsità d’acqua, i mulini continuavano a funzionare utilizzando gli animali che facevano girare le macine, e chiaro che questa soluzione non produceva la stessa quantità di macinato ed ecco perché nel XIX sec si rinnovano con l’ausilio del vapore.
Nei primi anni dell’’800 viene emessa una delibera per  l’identificazione del- Sito pella recintazione de’ centimoli.
I centimoli, all’interno dell’abitato, erano cinque di cui uno fuori servizio e precisamente due vicino il Monastero di Santa Croce e due vicino “la selva dei Padri di Santo Antonino” oltre a quello “inoperoso nella strada detta di Marrocco”.
- Delibera n. 25 del  1839 marzo 10 (A.S.CL – A.S.Comune CL – Decur. Del. - registro n. 796 – busta 802);

Si ricorda che per motivi di igiene viene deliberato  dal Decurionato che è vietato l’accumularsi il fimo (fumiri, letame) nello spazio di 60 canne dal fabbricato de’ centimoli e de’ molini di questo territorio- Delibera n. 50 del  1852 giugno 11 (A.S.CL – A.S.Comune CL – Decur. Del. - registro n. 797 – busta 815);
Il pane era probabilmente anche in Sicilia genere di lusso: i pastori e i contadini pare mangiassero grano bollito (cuccia). Si ricordano i versi di Mariano Bonincontro, poeta della metà del cinquecento: E fu burgisi di burritta azzola/ chi tinia mandra e siminazva urlia/ e fina intantu ch’illu happi la stola/ lu paxxiu sempri di tumi e cuccia, (Cfr. O Coppeler Orlando, Un poeta bizzarro del ‘500: Mariano Bonincontro da Palermo, in Archivio Stor. Sic. n. s. 30 (1905),p. 51).
La gabella della macina era  di grani due la salma e veniva pagata al gabelloto incaricato dal feudatario, o dall’arrendatario dello stato feudale, su tutti i frumenti che venivano portati nei mulini, tutti di proprietà dei Moncada. Ma anche chi macinava il grano con il “centimolo”, cioè con l’antica macina azionata dal mulino bendato, doveva pagare la stessa gabella.
…La gabella aumenta di anno in anno: nel 1606 è di 4 tarì per salma di frumento macinato.(ASP, Fondo Moncada, reg. 888, c 28, bando del 20 marzo 1606 del principe Antonio Moncada, che nessuno possa macinare senza la polizza a ragione di tarì 4 per salma). Nel 1617, però, la città ha accumulato tanti debiti per le tande e i donativi non pagati e i loro interessi che il principe decide di non incamerare  le 500 onze che gli erano dovute dal gabelloto della macina e di farne dono alla città. “Che si non si leva hora questa gabella non la si leva più, che è la più dannosa alli populi ed è causa di spopularsi la terra ….” (ASCL, Not. G. Imperiale, reg. 986 III, c / del 16 settembre 1617. Lettera del principe Moncada ai giurati della città
Rosanna Zaffuto Rovello “Caltanissetta Fertilissima Civitas  1516 - 1650” pgg. 179-80

Antica foto della Torrettta-altana tre-quattrocentesca dell’edificio denominato dell’"Aquila Nera",dal nome della locanda-albergo che ospitava nel XIX sec.
Particolare recente della torretta-altana con gli archi ogivali 

Particolare della cosiddetta "Torre del Magistrato" del  XV-XVI sec, con aperture ad archi ogivali, prima dei "restauri" nei quali è stato rimosso l'intonaco, secondo la "moda" in auge in questo decennio, alla Soprintendenza di "spellare" i monumenti, per dare quel clima antico e "rustico" tipico delle "pizzerie".
     Da questi particolari possiamo dedurre che oltre al mulino vero e proprio, esistesse una “massaria” con abitazione annessa, pagliera, stalla ecc., vicino ad un corso d’acqua e alla sorgente (abbeveratoio).

Facendo una ricostruzione della struttura notiamo che la torre si trova-va proprio sulla sponda del torrente, (quella sinistra), parallela ad esso.

La valle di questo torrente, è stata storicamente e soprattutto nel Medo Evo luogo di transito, accoglienza di pellegrini, stranieri e spiriti liberi, un posto ideale per nascondersi nelle grotte che la costellavano e caratterizzavano.
Difficoltà di accesso ed asprezza del territorio, nel X  XV sec. hanno rappresentato un grave ostacolo allo sviluppo economico della valle, determinandone un notevole spopolamento ed abbandono.
Viceversa proprio a causa dell’isolamento la natura si manteneva più che altrove intatta e selvaggia.
Una valle diversa quindi, dove il silenzio e la quiete lasciavano ampio spazio alla meditazione, colture abbondanti, pascoli in fiore, torrente impetuoso, nella stagione autunno-invernale, secco in quella estiva, particolarità geologiche, maestose puntare con le sue grotte, un paesaggio di altissimo valore ambientale, dove l’uomo da sempre è vissuto in armonia con la natura, nonostante le difficoltà della vita.
Tutte le epoche hanno lasciato documenti significativi di storia e arte, come dimostrano le tombe dell’età del bronzo superstiti all’attività di cava, sino ai nostri giorni.
Ed è in questo ambiente da favola, nei suoi anfratti, nelle forre che si articola e si  ambienta l’apparizione di San Michele che termina con il ritrovamento del corpo dell’appestato, fermato dall’Arcangelo, proprio in una di queste grotte .
Immagine dell'apparizione di San Michele , con in primo piano la porta dei Cappuccini sita in contrada Pigni -Rinella, sullo sfondo la collina di contrada Sallemi con l'abbeveratoio, poco più in alto il corpo dell'appestato, dove verrà eretta la cappelletta dedicata al santo

La porta della città detta dei Cappuccini si trovava vicino al muro curvo del piano della Conciliazione che costituiva il belvedere della Città detto del Tondo,(che si trovava dietro la chiesa di S. Giuseppe, occupato oggi dalla scuola S. Giusto e parte del palazzo della Provincia); essa è strettamente legata all'apparizione di San Michele come ci riferisce il Segneri nel suo manoscritto Breve storia della Città di Caltanissetta, quando nel "....1625 stando nel coro mentre si cantava il Mattutino, sulla porta della Città ( che poi fu diroccata, e nel 1822 vi fu edificata la porta d'ingresso nella Villa Isabella) vide l'Arcangelo S. Michele con la spada in mano in atto di difendere la Città, " .
 Questa porta, come si vede nel dipinto, era ad un solo fornice inquadrato da colonne corinzie, poste agli angoli dei pilastri bugnati dell'arco, con base ottogonale che sorreggono la cornice sormontata da un attico, al centro del quale, in corrispondenza del concio di chiave dell'arco, è posizionato lo stemma dei Moncada, un timpano spezzato concludeva il manufatto.
 Abbiamo notizie di questa porta, che ne confermano la descrizione, attraverso le spese  fatte dall'Università (comune) effettuate per la venuta del vicerè il 20 Febbraio 1653
    (...)  per gisso e sua maestria (pagamento a M.o Vincenzo Milazzo) et un manovale per havere levato l'armi di S. E. Padrone dalla porta  della città, et accomodato detta porta delli cappuccini, stanti  detti armi essere scatenati, quali armi si conservano nel convento dei Padri Cappuccini ( Arch. Stato di CL- Curia Iuratoria Archivio Storico Vol. 326).
   Nel quadro si vedono rappresentati nei particolari gli edifici che si affacciamo lungo quello che veniva chiamato lo Stradone dei Cappuccini (che coincide grossomodo all’attuale corsia  destra del V.le Regina Margherita) intesa come strata 'e "scapuccini" con il significato di verso i Cappuccini.

Particolare con l'abbeveratoio e l'appestato
Un capitolo molto importante rappresentato dall’architettura rustica, che evidenzia forme tipiche risultanti da influenze culturali mediterranee, dalla sicana in poi.
In questa valle, l’esigenza di integrare i bassi redditi delle attività agro pastorali ha generato singolari mestieri itineranti,  come i venditori d’acqua, i fogliamari, ecc
La valle aveva la forma e il pregio di essere predisposta a numerose vocazioni: ambientale, storico, culturale. In questa zona sub urbana era possibile praticare  diverse attività all’aria aperta immersi nella natura ed essere alle porte della città.
È proprio grazie all’unione di questi numerosi aspetti,  insieme alla fitta rete di sentieri, antiche strade mulattiere trazzere e piste a rendere la valle unica e speciale, dove risaltava questa particolare torre colombaia inserita fra le case della masseria prima e del mulino poi, con il caratteristico muro a colombage in pietrame con ossatura in legno.
All’interno di questa torre si trova una scala a chiocciola con il piantone poligonale è così perfetto e pensando al periodo nel quale è stata costruita (X-XII sec) da farmi ricordare la quadratura del cerchio, problema questo affrontato anche da Dante Alighieri (1265-1321), che nella sua Divina Commedia, lo affronta con  un esplicito  riferimento,  ovvero alla (impossibile) determinazione, con l’uso esclusivo della riga e del compasso, di un quadrato avente la stessa area di un cerchio assegnato. 
Quando ho visto la scala mi è venuto in mente “il  più  famoso passo matematico di Dante” che trascrivo:
 “Qual è ‘l geomètra ch e tutto s’affigge
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige,
tal era io a quella vista nova;
veder volea come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova”
(Paradiso, XXXIII, 133-138)

La scala a chiocciola è in legno, in origine era inserita nella struttura con una parte aperta per tutta l’altezza, che formava un’asola, recentemente chiusa con muratura in blocchetti di cemento; ha un piantone centrale poligonale regolare con 15 lati (pentadecagono), con un diametro di circa m. 0,20 ed un diametro totale di circa m. 1,80, i gradini alti circa m.. 0,20, il ventaglio di ogni pedata parte con una misura di circa m.0,04, al centro di m.0,25 per arrivare alla circonferenza con m. 0,40 circa; completata successivamente fino alla muratura. Le misure sono indicative considerato che non è stato possibile rilevarle attentamente per le precarie condizioni e il deposito di oggetti e masserizie di tutti i generi.
Il piantone, in tempi relativamente recenti, è stato letteralmente tranciato per realizzare un passaggio di collegamento tra le stanze in muratura con un solaio con putrelle e tavelloni, sul quale è stato costruito un tramezzo che isola la scala e i locali ricavati nella torre, con questo taglio della scala non è più possibile accedere comodamente nella stanza superiore.


Particolare del piantone tranciato per la realizzazione del solaio


Visione d'insieme della scala.















Particolare della scala con la muratura di chiusura degli anni '60
con blocchetti in cemento, e il solaio con i tavelloni.





Particolare della scala dove sono visibili
 le piastre in ferro di consolidamento e le sfaccettature
del puntone.


Particolare della rampa inferiore (attualmente occlusa da
suppellettili e pertanto inaccessibile) dove è visibile uno

degli archi di collegamento con i locali seminterrati.


I locali che si trovano nella torre sono stati ricavati in tempi “recenti” e questo è dimostrato dalla tipologia dei materiali (putrelle in ferro e dai tiranti e chiavi che si trovano all’esterno, proprio inserite nelle celle colombaie.
Nella parte bassa, è presente anche un tratto di muratura a colombage (esterno o interno?)


Immagini nelle quali è visibile nella parte bassa, il tratto di muratura a sinistra della porta  a "colombage", tipologia di parete in pietra con ossatura in legno. 
Tipologia tipica questa, per interni ed esterni in uso prevalentemente nell’Europa del Nord dal XI sec. e mentre la parte a sinistra è stata completamente rifatta con laterizi forati.,
Particolare della muratura a colombage, dove è visibile il reticolo
realizzato con listelli in legno e le muratura all'interno.

L’importanza delle case  con muratura “a colombage” (a graticcio):
all’origine i colori di queste case erano solo tre (bianco, giallo e rosso) poi utilizzando il cobalto sono nate anche quelle azzurre con colori derivati. In un’epoca in cui l’analfabetismo era ancora molto diffuso i colori delle case consentivano di visualizzare il mestiere degli artigiani che le abitavano:
il rosso per i mestieri sanguinari come macellai, conciatori, pellettieri, il bianco per mugnai e panettieri, il verde per i contadini, ecc.).
Erano soprattutto i conciatori di pelli e i mugnai ad abitare in questa zona perché avevano bisogno dell’acqua del torrente Palmintelli, affluente del torrente della Grazia-Fungirello che costeggiava a ovest il centro storico.


conclusioni

L’èdificio, se salvato, può rappresentare il museo di se stesso, anche senza gli attrezzi originali di lavoro, come percorso museale-didattico che documenta la cultura materiale del luogo, come parte importante della storia economica del territorio nisseno.
Questo complesso è l’ultimo esempio di archeologia industriale rimasto, dopo la demolizione degli altri mulini (vedi Sole, e non ultimo il Piedigrotta), per dare posto ad anonimi ed insignificanti palazzi.
Non facciamogli fare la fine del Piediogrotta, al quale, il pastificio Salvati ha ceduto sostanzialmente il testimone  in questa ipotetica staffetta industriale.


Con la demolizione di parte del mulino si completa l’iter di cancellazione della memori storica dei Salvati, la “damnatio memoriae” infatti in questi anni è stato demolito, con “legittima autorizzazione” del Comune, e l’assoluto silenzio e disinteresse da parte della Soprintendenza il “villino estivo” della famiglia che esisteva in contrada Balate, in via padre Pio da Pietralcina, soffocato dalle palazzine popolari degli anni ’70, ed oggi  sacrificato per dar posto un bel palazzone anonimo.
Non si capisce la necessità, perseguita con tenacia di costruire demolendo invece, se proprio vogliono costruire, in aperta campagna?. (ma pirchì  nun muranu arrassu unni c’è largu e unni  ‘un c’e nenti,  ‘mmeci di allavancari i  casi ca su additta?) Oltretutto in mancanza di domanda.
Vediamo infatti che i gli appartamento nei nuovi edifici, e non solo, stentano ad essere venduti.
Questi palazzinari si sono mai chiesto il perché?
Eravano circa 67.000 ab. nel 1962 quando è stato approvato il PRG Colombo, ed abitavamo tutti, o quasi, in quello che verrà definito il centro storico ad eccezione dei villaggi periferici dell’UNRA Casa e S. Barbara (già villaggio Capinto), dell'INCIS ecc. 
Dopo l’approvazione del PRG, che prevedeva il raddoppio della popolazione, la città si sposta, anormalmente  lungo la direttrice Palmintelli.
Ma così non è stato, Le aree individuate vengono immediatamente tutte occupate,gli appartamenti venduti sulla carta, tanto da occupare pure quelle zone chiamate AREE BIANCHE (cioè quelle che non erano state specificatamente destinate) e si sfondano, pure più volte le previsioni  di piano con altrettante varianti,….. ma gli abitanti cominciano a diminuire, fino ad oggi che siamo in bilico sugli appena 60.000 (tanto da rischiare la diminuzione dei contributi e dei ....Consiglieri Comunali da 40 a 30).
Ma mentre prima era ovvio che gli abitanti ammassati nel centro storico trovassero spazi nelle nuove periferie, anche perché era il tempo del BOOM economico, oggi l'edificato supera abbondantemente le necessità e quindi le richieste, (lo dimostrano i cartelli di vendita, l'abbandono del centro storico,  il diradamento delle abitazioni delle prime periferie ecc). Siamo infatti in piena CRISI ECONOMICA, il mattone oltre a non essere più un BENE RIFUGIO (vedi i dati ISTAT), non rappresenta più un investimento (dai predetti dati , i proprietari di abitazioni sono circa l’80 %, il restante 20%  si divide tra chi sta in affitto e chi abita case inagibili, perché non si può permettere economicamente altro, aspettando la.... “casa popolare”).
 Quindi per chi si costruisce?
Pensiamo pure al costo al metro quadro. In alcuni casi si parla già di  6000 € al mq., non considerando che già si stenta a vendere a 2500 € al mq edifici in corso di completamento, ridotti a 1700 €.
Abbiamo costruito ovunque, anche dove storicamente sapevamo che non si poteva costruire, e i risultati .....sono nelle cronache degli ultimi anni , vedi via Gori, i Vulcanelli,  via Xiboli, via Redentore ecc., con i relativi danni economici e perdite di vite umane.
Gli errori non servono da insegnamento, anzi!
Il villino Salvati fu costruito nei primi anni trenta del secolo scorso, forse su progetto dell'arch. Cardella, o della sua scuola.
vecchia immagine del villino Salvati in c/da Balate
 L’edificio, sebbene nella semplicità provinciale presentava elementi qualificanti della ricerca del suo tempo: la coesistenza e la compenetrazione di elementi geometrici solidi e piani, così vi troviamo il prisma, con aperture rette, il portico in aggetto con gli archi, agli spigoli erano  smussato (come nel mulino) ed aveva le finestre accanto all’arco, come fossero una serliana, il parapetto superiore alternato con balaustri e tratti pieni, l’uso di materiali e del colore, con i mattoni pieni a vista (che rievocava  i progetti  romani  del periodo fascista) e il colore rosso (definito da alcuni rosa antico)  ormai scolorito.
Altri villini  come questo sono stati progressivamente demoliti  e altri  rischiano la stessa fine … ma ne parleremo la prossima puntata.


Ebbene, il presente scritto, dimostra e documenta l’indiscusso valore storico, architettonico, etnoantropologico, sociale dell' edificio  e chiede pertanto che si ponga il relativo vincolo perché non si perda.

Fine terza parte       


......continua......