SANTA LUCIA
a
Caltanissetta
Ӝ
di
Giuseppe Saggio
Ӝ
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Le foto sono di Giuseppe Castelli, le cartoline sono tratte dalla mia collezione.
PREMESSA
LA TRADIZIONE RELIGIOSA
Facciata dell'attuale chiesa, a sinistra è visibile il corpo contenente la cappella della famiglia Ajala -Giordano con relativa sepoltura sottostante. |
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In primo piano è visibile la costruzione originale della chiesa posta su un masso sporgente |
Sulla parete di fondo dell'attuale chiesa sopra l'altare, si possono notare le tracce di un antico dipinto, rimpiazzato poi dal Crocifisso plastico, realizzato nel 1840 dal farmacista Michele Alesso, per il ripristino della processione del Giovedì Santo, ed assegnato alla Congregazione dei macellai, ceduto a questa chiesa, dopo la costruzione del gruppo attuale dallo scultore napoletano V. Biangardi nel 1891, oggi, dopo la rimozione dell'altare ligneo ricollocato in "sacrestia" il crocifisso e stato posto lateralmente.
A sinistra dell’altare maggiore si trova l’ampia cappella privata, decorata in stile liberty, delle famiglie Ayala e Giordano, con sottostante sepolcro, scavato nella roccia e accesso esterno, fatta realizzare dal cav. Vittorio Ayala nel 1890, come si legge in uno dei riquadri decorativi della volta e nella targa marmorea posta al centro delle parete frontale sopra il cornicione.
A centro del pavimento della cappella si trova la lapide amovibile con lo stemma, che serviva per calare i defunti nel sepolcro sottostante, a tale proposito si ricorda che questa è l'unica cappella funeraria esterna al cimitero.
La chiesa è conosciuta anche con il nome di S. Anastasia, perchè dipendeva dall'antico Priorato del monastero della SS. Trinità di Mileto (1422) e poi anche di Santa Lucia, nome questo dato alla vasta contrada circostante.
A centro del pavimento della cappella si trova la lapide amovibile con lo stemma, che serviva per calare i defunti nel sepolcro sottostante, a tale proposito si ricorda che questa è l'unica cappella funeraria esterna al cimitero.
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Portale di accesso esterno alla sepoltura della famiglia Ajala, sopra il portale lo stemma della famiglia in marmo |
Veduta interna della cappella della Famiglia Ajala |
Particolare della volta della cappella dove nella parte bassa di un riquadro si legge: "ERETTA DEL CAV. VITTORIO AYALA NEL 1890" |
Targa in marmo con la stessa scritta. |
(Francesco Pulci "Lavori sulla storia Ecclesiastica di Caltanissetta” 1977 pag. 345 nota 87)
Nel ’7-’800, la chiesa era stata affidata ad un frate laico cappuccino, che per non fare giornalmente il percorso a piedi verso la città, pensò di trasformare, per sua comodità i locali della sacrestia in alloggio, e quindi per illuminare ed arieggiare il locale allargò la feritoia esistente in una finestra sotto il Cristo Pantocrator, costruì un focolare nell'angolo a sinistra, dove però si trovava l’affresco di Santa Lucia, e si fece il giaciglio, per stare al caldo, in un soppalco realizzato sopra detto focolare e per far questo, infilzò le travi nell'affresco della santa. In questo modo la parte inferiore dell’affresco è andato perduto.
Così il can Pulci ricorda l'avvenimento (considerato che il libro, nella parte relativa alla descrizione delle chiese è stato realizzata alla fine dell’800, mentre quelle relative al vescovado si protraggono ai primi del '900 e la sua premessa è datata 25 marzo 1924, quando scrive nella nota " nel secolo passato" si riferisca al 1700):
“È a lamentare che nel passato secolo affidata la chiesa alla custodia di un imperito frate laico, questi per proprio comodo ebbe ad elevarsi un muretto che toglie la visuale degli affreschi meritevoli dell’attenzione dell’archeologo”. (F. Pulci Lavori sulla storia ecclesiastica di Caltanissetta 1977 pag. 366 nota 2)
Così il can Pulci ricorda l'avvenimento (considerato che il libro, nella parte relativa alla descrizione delle chiese è stato realizzata alla fine dell’800, mentre quelle relative al vescovado si protraggono ai primi del '900 e la sua premessa è datata 25 marzo 1924, quando scrive nella nota " nel secolo passato" si riferisca al 1700):
“È a lamentare che nel passato secolo affidata la chiesa alla custodia di un imperito frate laico, questi per proprio comodo ebbe ad elevarsi un muretto che toglie la visuale degli affreschi meritevoli dell’attenzione dell’archeologo”. (F. Pulci Lavori sulla storia ecclesiastica di Caltanissetta 1977 pag. 366 nota 2)
La festa della santa veniva celebrata annualmente in questa chiesa e durava otto giorni (ottavario) con processione della statua della santa fino in città, con i fedeli che portavano in mano un rametto di mirto (murtidda) e un cero o una fiaccola acceso.
Per i festeggiamenti dedicati alla Santa, lungo il percorso della processione, la città si addobbava di drappi, esponendo le coperte più belle ai balconi e illuminando le strade con i ceri e fiaccole.
Cconsiderato che il tempo a dicembre non è sempre sereno e i fanghi creavano non poche difficoltà lungo il percorso della processione e soprattutto nei pressi della chiesa, per volere popolare nel XVIII secolo si trasferì la statua della santa nella chiesa della Madonna dell’Arco che d’allora si chiamò anche di S. Lucia.
CHIESA della MADONNA DELL’ARCO o di SANTA LUCIA.
Accanto ad una delle antiche Porte della città, quella settentrionale, esisteva già nel XVI secolo una chiesa dedicata alla Vergine che, per la sua posizione, fu identificata come Madonna dell’Arco così come risulta da un atto di soggiogazione tra il Governatore della Confratria della Madonna dell’Arco, Carlo Denaro e i coniugi Sebastiano e Antonia Muratore presso il Not. Francesco Mammana, datato 6 aprile 1581.
La chiesa fu però ufficialmente consacrata dal Vescovo di Agrigento, Mons. Vincenzo Bonincontro, solo il 13 aprile 1614, durante una Sua Sacra Visita.
La chiesa, secondo gli storici locali Luciano Aurelio Barrile e Camillo Genovese, rappresentava nel XVIII secolo il limite occidentale del quartiere di S. Flavia o S. Venera.
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Foto d'epoca della Chiesa di Santa Lucia prima dei bombardamenti del 9 luglio 1943, tratta dal libro "Caltanissetta c'era una volta" |
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Ricostruzione della facciata della chiesa ottocentesca di S. Lucia, fatta dall'arch. G. Castelli utilizzando la foto precedente. |
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Foto dei ruderi della chiesa di S. Lucia causati dai bombardamenti del 9 luglio 1943, tratta dal libro "Caltanissetta c'era una volta" |
Ancora oggi per la festa della santa, davanti la chiesa, non mancano mai “u Ciarameddaru” (suonatore di cornamusa o zampogna) e il venditore di "murtidda", che da la possibilità ai fedeli di rinnovare la tradizione e pregare la Santuzza , con il ramoscello in mano, che si offrirà alla Santa o addobberà le “nuvene” a casa.
CONFRATERNITA
In questa chiesa aveva sede la Confraternita omonima, formata da contadini.
La loro uniforme era formata da un mantello si seta cilestre (celeste), sotto lasciava pendere una lunga striscia o stola di lana rossa larga cm. 25 sulla quale stava un ovale sul quale era dipinta la Madonna dell’Arco con ai piedi S. Lucia
In questa Chiesa, generalmente, i nuovi Vescovi vestivano gli abiti Pontificali per l’ingresso ufficiale in Città, attraverso una processione solenne con tutto il clero fino in Cattedrale e prendere così possesso della Diocesi.
Addobbo del "Sepolcro" che si realizzava nel periodo di Pasqua nella chiesa di S. Lucia prima dei bombardamenti |
nella prima metà dell''800
La realizzazione della nuova strada Consolare per Palermo, attraverso sbancamenti e demolizioni, è da considerarsi un vero e proprio “fuori scala” urbanistico.
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Bastone del Collegio realizzata dal Comune su progetto dell'arch. Gaetano Lopiano |
Vecchia cartolina con il bastione del Collegio |
L’abbellimento del bastione è stato successivamente realizzato su progetto dell’arch. Comunale Gaetano Lo Piano, già impegnato nella costruzione del Giardino Pubblico “Villa Isabella” (villa Amedeo), dopo i luttuosi eventi del 1820. Fu incaricato anche del completamento della facciata della Chiesa madre, eretta a Cattedrale nel 1844, ecc.
La città, come nuovo capovalle, si è dotata di nuovi uffici, strade , moderni edifici civili e religiosi, per garantire “servizi” al popolo.
In questo periodo si realizza anche l’altro bastione di Sant’Antonino a seguito del taglio della collina della Provvidenza, per la costruzione della nuova strada per Piazza (Armerina).
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Facciata della Chiesa di S. Lucia vista da via Arimondi |
SANTA LUCIA- FESTA DI LUCE
Illuminare la notte
l'ulivo, l'ape, l'olio e la cera
fuoco e luce.
In tanti paesi la notte di Santa Lucia, si mettevano i lumi alle finestre per illuminare la strada verso il Paradiso alle anime purganti.
Secondo la tradizione, Lucia con una lampada fissata sul capo, percorse gli angusti cunicoli delle catacombe, per distribuire ai bisognosi, il denaro ricavato dalla vendita della sua ricca dote.
Nei paesi scandinavi le ragazze vestite con una semplice tunica, si cingono la testa con corone di candele e sfilano lungo le strade intonando canti sulle note della canzone napoletana “S. Lucia”:
Secondo la tradizione, Lucia con una lampada fissata sul capo, percorse gli angusti cunicoli delle catacombe, per distribuire ai bisognosi, il denaro ricavato dalla vendita della sua ricca dote.
Nei paesi scandinavi le ragazze vestite con una semplice tunica, si cingono la testa con corone di candele e sfilano lungo le strade intonando canti sulle note della canzone napoletana “S. Lucia”:
Sul mare luccica
L’astro d’argento.
Placida è l’onda;
prospero è il vento.
Venite all’agile
Barchetta mia!
Santa Lucia, Santa Lucia...La vita è racchiusa e straordinariamente condensata nel trinomio Lucia-luce-fuoco, ricordando che in dialetto il fuoco lo chiamiamo “luci”, mentre la luce è “lustru”. E quindi in dialetto: Lucì, lustru e luci
Chi non ha mai esclamato l’espressione “Santa Lucì!” per chi cerca una cosa senza vedere che gli sta davanti appunto sotto gli occhi?
Lucia, femminile del nome latino Lucius, deriva da lux, cioè luce, che veniva imposto a chi nasceva all’alba. Il nome di Santa Lucia si invoca contro le malattie degli occhi.
L’iconografia tradizionale ci tramanda la figura di Santa Lucia, vergine e martire siracusana morta decapitata nel 304 durante la persecuzione di Diocleziano, come una giovane bellissima vestita di verde che porta con la destra un vassoio (alzata) sul quale sono posati gli occhi, strappatigli dal corteggiatore rifiutato (altra versione vuole invece che se li sia strappati da sola inviandoli al corteggiatore innamorato dei suoi occhi), la palma del martirio nella deistra e la spada infissa nel collo.
Gli Atti del suo martirio, il cosiddetto Codice Papadopulo, narrano di una giovane, orfana di padre, appartenente ad una ricca famiglia di Siracusa, che era stata promessa in sposa ad un pagano
Lucia decise di rinunciare ai suoi averi dopo che le apparve in sogno Sant'Agata, patrona di Catania.
Abbandonando così l'idea del matrimonio, Santa Lucia indusse il fidanzato a vendicarsi di lei denunciandola come cristiana.
Il processo che Lucia sostenne dinanzi all'Arconte Pascasio attesta la fede ed anche la fierezza di questa giovane donna nel proclamarsi cristiana. Minacciata di essere esposta tra le prostitute, Lucia rispose. "Il corpo si contamina solo se l'anima acconsente". Il proconsole allora ordina che la donna sia costretta con la forza, ma lei diventa così pesante, che decine di uomini non riescono a spostarla. Il dialogo serrato tra lei ed il magistrato vede addirittura quasi ribaltarsi le posizioni, tanto da vedere Lucia quasi mettere in difficoltà l'Arconte che, per piegarla all'abiura, la sottopone a tormenti.
Lucia esce illesa da ogni tormento fino a quando, inginocchiatasi, viene decapitata.
La sua iconografia vede spesso gli occhi accompagnati dal pugnale conficcato in gola. Il motivo di questa raffigurazione è da spiegarsi con il racconto dei cosiddetti Atti latini che descrivono la morte di Lucia per jugulatio piuttosto che per decapitazione.
Il corpo della santa, prelevato dai Bizantini, dal suo “loculo” a Siracusa, è stato, prima portato a Costantinopoli da Maniace, e successivamente trafugato dai Veneziani dopo la decisione del Doge Enrico Dandolo, nel 1204, di trasferire a Venezia il corpo della Santa, quando Costantinopoli cadde sotto i Crociati, oggi si trova ora a Venezia nella chiesa dei Santi Geremia e Lucia.
Secondo una leggenda priva di fondamento oggettivo, la discendenza della santa siracusana proverrebbe direttamente dalla famiglia di Archimede, legando così le due figure più importanti della città ad un unico ramo genealogico.
Privo di ogni fondamento, ed assente nelle molteplici narrazioni e tradizioni, almeno fino al secolo XV, è l'episodio di Lucia che si strappa gli occhi. L'emblema degli occhi sulla tazza, o sul piatto, è da ricollegarsi, semplicemente, con la devozione popolare che l'ha sempre invocata protettrice della vista a causa del suo nome Lucia.
La vista, considerata come bene essenziale e primario della quale non vogliamo privarci, tanto da essere nominata come garanzia nei giuramenti “urbi di l’ucchi”.
Prima della riforma del calendario giuliano (1582), che sostituì quello gregoriano, (la differenza è di 10 giorni) il 13 dicembre, giorno di Santa Lucia, coincideva con il solstizio d’inverno, che era considerato il giorno più corto dell’anno, dal quale il detto “Santa Lucia ’u jornu cchiu curtu ca ci sia”. E questa tradizione, scientificamente non esatta, è rimasta invariata e tramandata sino ai nostri giorni.
Altri detti hanno lo stesso significato:
Altri detti hanno lo stesso significato:
Santa Lucia a’notti cchiu longa ca ci sia.
Santa Lucì i jorna incuminciano a crisciri arrì.
Pì’ Santa Lucì si mancia ‘a cuccì
È curioso notare che questa tradizione si può applicare nell'ambito del calendario gregoriano, avendo però l'accortezza di interpretare il "giorno più corto" come il giorno in cui il sole tramonta prima.
La celebrazione della festa in un giorno vicino al solstizio d'inverno, è probabilmente dovuta alla volontà di sostituire antiche feste popolari che celebravano la luce e si festeggiano nello stesso periodo. Altre tradizioni religiose festeggiano la luce in periodi vicini al solstizio d'inverno come ad esempio la festa di Hanukkah ebraica, che dura otto giorni, come le celebrazioni per la Santa.
Questo periodo, dal 13 al 24, collegato agli antichissimi riti solstiziali, viene osservato come propedeutico dei dodici mesi del nuovo anno.
Il mese di dicembre, come gli altri, era scandito dagli indovinelli“ ‘a ‘nnuminaglia” o miniminaglia” così uno recita:
"Diciemmiru : o rui Cuonu, o quattru Barbara, o sia Nicola, l'uottu Marì, o tririci S. Lucì e o vinticincu 'u veru Missia"
(Spiegazione: Nel mese di dicembre si festeggiano il 2 S. Cono, il 4 S. Barbara, il 6 S. Nicola, l'8 Maria Immacolata, il 13 S. Lucia ed il 25 il Natale di Gesù (vero Messia).
Cappelletta decorata per la "novena" |
In questo modo il Capofamiglia, indicava i numeri, che non si pronunciavano e si associavano ai Santi e alla smorfia de lotto, nel gioco della tombola quando, nelle sere d’Avvento, si riunivano i parenti attorno ad un tavolo, che mettevano il fagiolo, il lenticchio, la fava secca, i bottoni ecc. sul numero corrispondente della cartella se c’era.
Queste riunioni familiari, allargate ad amici e vicini, si svolgevano accanto al braciere e ai “tangini” (scaldini) di carbonella o di “ginisi di scorci di minnula” carbonizzati che prevalentemente le donne mettevano tra le gambe, alla luce dei lumi a petrolio o delle lumere, gli odori si mischiavano da quello dolce dell’olio a quello aspro del carbone e del petrolio.
Sul comò di tutte le case, in bella vista era “cunzata” a nuvena: lo specchio veniva coperto dalla carta stellata e nel piano e sopra lo specchio venivano ordinati in fila e posti a perimetro i frutti di stagione più belli: aranci, puma, mannarini, nispuli di 'mmirnu e murtidda e addauru (arance, mele, mandarini, nespole d’inverno e l’immancabile mortella o mirto e rami di alloro), al centro il Bambinello di cera e il lumino ad olio (un bicchiere con dell’acqua e olio) con il miccu addumatu (lucignolo) galleggiante.
L’uso dell’utilizzo dei rami e dei frutti, è semplice figurazione, legata alla terra e retaggio delle feste latine
La sera, davanti a questa novena così addobbata, si recitava il rosario e si intonavano canti natalizi come:
...
...
cch’è bedda ‘ssa murtidda,
è bedda carricata
cci cadi la jlata,
cchiù bedda si fa. Traduzione:
Come sono belli questi rami di mirto,
così carichi di bacche
il gelo che li ricopre,
li rende più belli.
Ai luoghi di culto deputati alle scene presepiali e delle novene, allestite in ogni casa, si irradiavano forme strumentali e vocali di antica memoria, ai quali si affidava il compito rituale di sacralizzare gli spazzi vissuti e abitati nel segno del culto per il Bambino Gesù, espressione tangibile della vita che rinasce.
La "laudata" o "lamintanza",diversa da quella che s'intona durante la Quaresima, la tradizione sconosce l'epoca nella quale sia comparsa per la prima volta, questo canto così struggente e originale, é esclusivo di Caltanissetta, ma con variazioni , lo ritroviamo in altri comuni.
Alle strofe fu data dal popolo un'intonazione monotona e lamentevole, da questo forse il nome "lamintanza", che tramandata da padre in figlio si é conservata quasi fino a noi.
A Caltanissetta a dominare musicalmente la scena della Natività era la ciaramedda, ovvero la zampogna che accompagnava i laudanti. I gruppi, erano contadini o zolfatai messi in crocchio nelle strade o riuniti nelle bettole davanti ad un bicchiere di vino e ad una tazza con zuppa di ceci o di fagioli per poi continuare nuovamente per le strade.
Bastavano poche persone per eseguire questa cantilena.
Uno, quello che presume di essere in grado, perché la conosce tutta o più strofe, fa da "prima vuci", intona il canto; l'entusiasmo che lo pervade con repentine modulazioni della voce e con movimenti mimici coinvolgeva gli astanti.
L’arcaico suono della “ciaramedda” (zampogna) ci rimanda all'antica offerta musicale agro-pastorale, infatti lo strumento altro non è che una sacca detta “otre” realizzata con pelle e ventre di capra, pecora o montone; nel foro ricavato dal collo dell’animale si inserisce un blocco di legno dentro il quale si attaccano le canne, cioè i tubi sonori.
"La festa di S. Lucia
Il mercato. Gli occhi di cera. La cuccia.
Fino a non molto tempo fa, per S. Lucia, si faceva uno speciale mercato nel quale oltre che mortella, come oggi, si vendevano mele, arance, fichidindia, nespole e altro da servire per la grotta di Natale.
Un’usanza che ancora continua era quella della “cuccia” grano ammollato cioè, che viene cotto con ceci.
Un’usanza che è completamente scomparsa era quella dell’offerta a S. Lucia di occhi fatti di cera in ringraziamento di grazie ricevute. Ora tale uso è sostituito con quello generico di offrire alla Santa delle candele di cera". Da la Favola bella di Enzo Falzone del 1963. pag. 83.
LA CUCCIA
Altra tradizione è quella della “cuccìa” il grano che viene bollito nell’acqua o nel latte che, con rima baciata, si mangia in suo onore.
La tradizione vuole che questa pietanza sia nata a Siracusa nel XVII secolo, durante la dominazione spagnola, dopo una grave carestia che aveva interessato l’intera Sicilia. Il giorno di S. Lucia giunse nel porto della città, una nave carica di frumento, questo fatto è stato interpretato come miracolo per l’intercessione della Santa, protettrice della città, per questo motivo si è tramandato l’uso di mangiare la “cuccia” il giorno a lei dedicato.
Priva di fondamento la leggenda che vuole che in quell'occasione i siracusani cucinarono di fretta i cereali per nutrirsene facendo così nascere la tradizione della cuccìa
Il nome “cuccìa” sembra derivi dal sostantivo “cucciu” chicco, o dal verbo “cucciare” sgranare, piluccare, cioè mangiare un chicco alla volta.
Le ricette variano da zona a zona, dal dolce al salato, quella nissena è prevalentemente salata abbinata con un altro legume tipico del territorio come i ceci.
La preparazione della “cuccìa”, rappresenta quasi un rito nelle famiglie siciliane. Bisogna ricordarsi di ammollare il frumento per almeno tre giorni, cambiando continuamente l’acqua, prima di cucinarlo. Stessa cosa si fa con i ceci però solo per una notte. Si pongono poi sul fuoco in una pentola piuttosto grande e si fanno bollire molto lentamente con le foglie d’alloro e un pizzico di sale, fino a quando il frumento sarà tutto aperto e l’acqua sarà diventata color latte.
Si passa poi al condimento con olio extra-vergine d’oliva sale e pepe.
Alcuni la preparano con il solo grano e molto asciutta, quasi a sgranarla, le rimanenze venivano gettate sui tetti o sposti sui davanzali per dar da mangiare agli uccelletti.
Le altre ricette sono con latte e zucchero, con ricotta, cioccolato e cannella, con mostarda e miele.
E la luce fu.
Molto presto vi parlerò dell'illuminazione a Caltanissetta che la rendeva unica e talmente sfolgorante che ho pensato di chiamare Caltanissetta, parafrasando Leonardo Sciascia, che l'ha definita "piccola Atene"......
......."piccola ville Lumiere" attraverso le storie sull'illuminazione pubblica, privata e religiosa....dalla torcia all'elettricità passando per il gas.
continua...
Molto presto vi parlerò dell'illuminazione a Caltanissetta che la rendeva unica e talmente sfolgorante che ho pensato di chiamare Caltanissetta, parafrasando Leonardo Sciascia, che l'ha definita "piccola Atene"......
......."piccola ville Lumiere" attraverso le storie sull'illuminazione pubblica, privata e religiosa....dalla torcia all'elettricità passando per il gas.
continua...
3 commenti:
La storia e la cultura devono essere tramandate, è d’obbligo rendere partecipi anche le generazioni future su quelle che sono le tradizioni del proprio paese e della propria gente, molte cose non vengono nemmeno scritte sui libri perché possono ritenersi superflue, invece spesso sono proprio quelle che incuriosiscono il lettore e lo spingono a saperne di più. L’architetto Saggio ci permette di assaporare con queste pillole di saggezza molto di ciò che appartiene alla nostra storia. GRAZIE
Caro architetto, Tu sei quella torcia elettrica che illumini un condotto attraverso un passaggio di gas, che, carico di particelle esplosive, genera quella luce ed energia creativa tale da elettrizzare un raggio di sole in una assolata giornata estiva. Claudio Giordano
Grazie,interessante ,ricca informazione,dai contenuti di una profonda ricerca ove spesso aiuta alla conoscenza di luoghi spesso perduti bel tempo e fatti rivivere e apprezza.
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